A Bruxelles era tutto pronto per la votazione finale sul bilancio dell’Unione Europea per il periodo 2021-27, ma tra il blocco dell’Europa occidentale a trazione tedesca e il blocco dell’Europa orientale a guida Visegrad sono emerse delle profonde divergenze di vedute per quanto riguarda un punto-chiave del piano: legare l’accesso ai fondi europei alla salute dello stato di diritto nei Paesi membri.
Una questione diventata di fondamentale importanza in queste ore, visto che gli ambasciatori di Polonia e Ungheria hanno deciso di porre il veto. Ad annunciarlo è stato il portavoce della presidenza di turno tedesca, Sebastian Fischer, che sul suo profilo Twitter ha dichiarato che “i due Stati membri hanno espresso la loro opposizione rispetto ad un elemento del pacchetto, ma non sulla sostanza dell’accordo sul Bilancio”. Un messaggio di apparente tranquillità che però è stato subito superato dalla realtà dei fatti. Lo stesso Fischer ha dovuto prendere atto della mancanza di unanimità “necessaria per avviare la procedura scritta” per le risorse Ue.
La battaglia del duo Budapest-Varsavia
La Germania sta approfittando della presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea per approvare il bilancio comunitario per il periodo 2021-27 secondo le modalità e i parametri elaborati da Berlino e per Berlino. Uno dei punti centrali dell’accordo sul bilancio prevede l’introduzione di una clausola di condizionalità che legherebbe in maniera indissolubile l’accesso ai fondi comunitari alla salute dello stato di diritto nel Paese richiedente. Uno dei passaggi più controversi di tale iniziativa riguarda la possibilità di avallare la privazione e/o la sospensione dei fondi anche nei casi in cui le violazioni non siano state accertate ma, dove, comunque “esista il rischio” che vengano compiute.
Salute dello stato di diritto non significa soltanto indipendenza e integrità dei tre poteri, in particolare quello giudiziario, ma anche stato di avanzamento di diritti civili e umani e volontà di conformarsi ai dettami europei per quanto riguarda tematiche come cultura e immigrazione. È soltanto a partire da questo premessa che si può comprendere e inquadrare l’ennesimo braccio di ferro tra i favorevoli al meccanismo di condizionalità, che si trovano sostanzialmente ad Ovest, e i suoi detrattori, che provengono da Est e sono rappresentati dall’alleanza Visegrad.
Il governo ungherese è determinato a porsi alla guida del movimento di opposizione contro tale clausola, che priverebbe di importanti risorse per lo sviluppo tutti quegli Stati membri che risultassero non conformi ai criteri sullo stato di diritto stabiliti da Bruxelles. Il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha appoggiato l’iniziativa di Fidesz e lo scorso giovedì ha scritto una lettera a Charles Michel, il presidente del Consiglio dell’Ue, per esprimere il proprio disappunto e le proprie perplessità circa la norma in questione.
I retroscena
Fidesz e Diritto e Giustizia (PiS) credono che le reali motivazioni dietro la proposta tedesca di condizionare l’accesso ai fondi europei al rispetto dello stato di diritto siano squisitamente ideologiche: le dirigenze liberali dell’asse Parigi-Berlino vorrebbero porre un freno alle agende conservatrici che caratterizzano l’alleanza Visegrad, in particolare Budapest e Varsavia. Emblematico è, a tal proposito, quanto dichiarato da Judit Varga, ministro della Giustizia ungherese, alla vigilia del dibattito in sede di Consiglio: “L’Ungheria non ha mai combattuto contro l’Europa, ma per l’Europa e per il futuro europeo dei nostri figli e dei nostri nipoti. L’Ungheria concorda con i padri fondatori dell’Unione che l’Europa sarà cristiana ed umanista oppure non sarà niente”.
La proposta sulla condizionalità non sarebbe il frutto di calcoli politici, quindi, ma ideologici: si tratterebbe dell’ultimo tentativo della galassia liberale di sopprimere e silenziare il movimento conservatore che, originatosi nello spazio postcomunista, si è poi diffuso a macchia d’olio in quasi tutto il continente.
Curiosamente il dibattito su cosa si intenda per rispetto dello stato di diritto avviene mentre la Polonia sta venendo scossa da due guerre culturali molto importanti, una sull’ideologia di genere e una sull’aborto, l’Ungheria si appresta a rivisitare la propria legislazione per proibire le adozioni alle coppie omosessuali e l’Estonia indice un referendum per dare una definizione al concetto di matrimonio.
La Polonia, per tutti quei Paesi e quelle forze politiche che sono contrarie alla clausola sulla condizionalità, rappresenta un modello da cui imparare e uno scenario da temere e che si vuole evitare: fra luglio e agosto, infatti, alcune delle città che hanno aderito alla campagna di PiS contro l’ideologia di genere, le cosiddette “aree libere dall’ideologia lgbt”, hanno ricevuto le prime sanzioni, perdendo l’accesso ai fondi comunitari e subendo dei de-gemellaggi.