Le elezioni legislative francesi si avvicinano e il riconfermato Emmanuel Macron affronterà, tra il 12 e il 19 giugno, una sfida assai più complicata di quella di cinque anni fa. Allora, col vento in poppa dell’elezione, il leader de La Republique En Marche! conquistò uno schiacciante successo in parlamento. La maggioranza presidenziale estesa al Movimento Democratico di François Bayrou conquistò la maggioranza assoluta dei 577 seggi in palio. L’Assemblea Nazionale torna in questi giorni contenibile e Renaissance, nuovo nome della formazione macroniana, teme che tale esito possa non riproporsi.
E assieme all’Eliseo teme un esito di questo tipo anche l’Europa. “Negli ultimi giorni”, ha scritto il corrispondente di Repubblica dai palazzi europei Claduo Tito, “sia a margine dell’ultima riunione della Commissione, sia in Parlamento a Strasburgo, infatti, l’eventualità che le elezioni legislative di domenica prossima costringano il presidente francese Macron a fare i conti con un sistema politico parcellizzato”. Due forze di opposizione stanno emergendo agli opposti spettri politici: da un lato, la destra del Rassemblement National, dall’altro la sinistra alleata attorno a La France Insoumise di Jean-Luc Mélenechon. Nei palazzi del potere europei si ritiene che Macron possa “mostrarsi come un’anatra zoppa” costretto ad annacquare la composizione del suo esecutivo e questo “ha fatto scattare un vero e proprio allarme”.
Nell’intenzione degli alleati europei della Francia l’idea che va per la maggiore è quella basata sulla possibilità di un governo supportato dalla maggioranza presidenziale allargata, al massimo, al centro-destra di Les Republicains. Questo nell’ottica della necessità di preservare il ruolo della Francia come potenza mediatrice nel contesto del conflitto russo-ucraino senza che Macron sia costretto a una negoziazione continua anche sull’agenda di politica estera. Complice l’appannamento del tedesco Olaf Scholz e la ridotta spendibilità di Mario Draghi, apertamente schierato a favore del campo atlantico, come mediatore Macron è ritenuto l’unico capo di Stato capace di aprire a una mediazione a tutto campo.
L’Unione europea cerca una via autonoma di pensiero politico e diplomatico a cavallo tra la necessità di sostenere l’Ucraina sul campo e la volontà di porre un freno alle conseguenze sistemiche del conflitto. Sul campo ci sono diversi dossier: la questione delle armi, fornite a Kiev da quasi tutti i Paesi europei, il tema dello sblocco delle forniture di grano, la mediazione della Turchia, la gestione dei profughi e i riflessi globali della crisi a Est. Tutti temi su cui la presenza di un mediatore credibile come Macron e di una Francia stabile è ritenuta vitale per l’Ue.
Ebbene la logica comunitaria è chiara: un Macron debole, pensano i leader, implica una Francia meno adatta a mediare. Dunque un’Europa più debole e appiattita sui desiderata americani e, di conseguenza, un Putin più assertivo nel fare pressione sul Vecchio Continente alzando la posta. Tutto questo pensando che il “colpo basso” che la Russia può infliggere all’Europa potrebbe arrivare, per via asimmetrica, da uno scenario ove la Francia è estremamente attenta a tutelare la sua presenza, l’Africa. “In tutte le riflessioni di questi giorni, Ue e Nato prendono in considerazione una sorta di opzione africana”, nota Tito. “Ossia l’idea che Mosca possa estendere la guerra ibrida all’Africa affamandola” e scaraventando una tempesta migratoria contro l’Europa. “L’Ue”, in questo caso, “dovrebbe affrontarla senza mettere in campo le redistribuzioni” tra Stati anche perché “tutti gli Stati dell’est Europa stanno già affrontando l’emergenza profughi dall’Ucraina”. Anche secondo l’ex Ministro dell’Interno italiano e presidente della Fondazione Med-Or Marco Minniti Putin stringe l’Europa in una tenaglia umanitaria, dato che se non sarà liberato il grano ucraino il Nord Africa e il Mediterraneo rischiano di implodere.
Macron appare la chiave di tutto, dunque. E il pensiero dei leader europei va in particolare alla possibilità che a imporre la coabitazione al potere sia Jean-Luc Mélenchon, alla guida di una sinistra che chiede istanze sociali e ambientali avanzate, vuole che Macron dia conto dei limiti della sua agenda riformatrice e, soprattutto, affronti i problemi del carovita e del rischio recessione. Tutte istanze legittime che possono assorbire energie politiche notevoli e distoglierlo dal ruolo di protagonista degli affari globali che si è ritagliato. Mentre sul fronte opposto Marine Le Pen mira a ottenere almeno 60 deputati, il minimo per ricorrere alla Corte costituzionale contro i provvedimenti politici dell’Eliseo.
I sondaggi più recenti danno la maggioranza presidenziale imperniata sul partito di Macron tra i 250 e i 290 seggi e l’Unione Popolare di Mélenchon verso i 190-230. La maggioranza assoluta è a quota 289, quindi le prospettive del presidente di ottenerla appaiono ridotte sempre di più. I sovranisti sono dati invece tra un minimo di 35 e un massimo di 65 seggi. In questo caso, un’Unione Popolare forte aprirebbe a dei rischi circa l’alleanza tra Macron e il centro-destra, dato che questo aprirebbe a una contestazione vigorosa da sinistra e alla trasformazione dell’Assemblea Nazionale in un Vietnam. Mélenchon guadagna 20-30 seggi la settimana di media nelle intenzioni di voto: un mese fa il sistema a doppio turno lo dava in grado di ottenere 70-90 seggi contro i 350 circa dei macroniani, oggi la forbice si è ridotta. E l’Europa guarda con apprensione alla possibilità di perdere uno dei suoi residui fari di stabilità, mentre all’orizzonte si stagliano le midterm americane e le elezioni italiane che andranno in scena nei prossimi mesi. Ma la forza della democrazia si misura proprio nella sua capacità di reagire alle situazioni di crisi: e il voto francese può confermare quella che, in fin dei conti, è una vera differenza rispetto al sistema di Vladimir Putin, arrivato a dipendere da un solo uomo.