Nell’agenda dell’Unione europea è tornata prepotentemente l’esigenza di dotarsi di una Difesa comune. La causa scatenante, o se vogliamo “la goccia che ha fatto traboccare il vaso”, è stata la gestione unilaterale, da parte degli Stati Uniti, del ritiro dall’Afghanistan, che ha sostanzialmente escluso gli Alleati facenti parte della Nato dai processi decisionali dell’operazione di evacuazione di Kabul.
I prodromi di questa rinnovata necessità erano stati avanzati, come ben sappiamo, dal presidente francese Emmanuel Macron, che all’inizio di quest’anno aveva affermato che all’Europa serviva “autonomia strategica” in un consesso molto particolare: il forum online del Consiglio Atlantico. Quel gesto, ora, è possibile indicarlo come il vero punto di svolta per la politica dell’Unione nel campo della Difesa: da quel giorno di febbraio, infatti, il tema è diventato sempre più importante all’interno dell’Ue sino ad arrivare ai fatti di agosto, che hanno portato, a loro volta, al discorso della presidente della Commissione Europea Ursula von Der Leyen di metà settembre in cui sono state individuate le prime linee guida per poter dotare l’Unione di uno strumento militare condiviso, individuato in una prima Expeditionary Force, una forza di primo intervento, a composizione mista e a comando interamente comunitario, della consistenza di una brigata rinforzata.
Una Difesa comune significa una politica estera comune
Avere una difesa comune, però, significa innanzitutto avere una base industriale comune e una politica estera comune. Per quanto riguarda la prima, esistono dei meccanismi che possono essere utilizzati per mettere a sistema il procurement militare dei Paesi dell’Unione: l’Occar, Organisation Conjointe de Coopération en matière d’Armement, l’Agenzia Europea per la Difesa, la Pesco, Permanent Structured Cooperation, a cui si è affiancato il recente European Defense Fund (Edf).
Per quanto riguarda la seconda, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che fa capo al Consiglio dell’Ue, non assume ancora quel ruolo unitario di rappresentanza di tutti i Paesi aderenti, che, come logico, perseguono le proprie politiche negli affari esteri. Il problema principale, qui, è quello che si riscontra anche nella Nato: accomunare le visioni strategiche in politica estera (e quindi anche nella Difesa), di un numero elevato di Paesi è molto difficile, quasi impossibile. L’esempio dell’Alleanza Atlantica è calzante: tra i suoi 30 aderenti non ci sono le stesse percezioni di minaccia alla propria sicurezza, coi Paesi dell’est europeo che guardano con preoccupazione alla Russia e quelli mediterranei più concentrati sul “Fronte sud”. Ora bisogna immaginare, guardando alla carta geografica dell’Ue, la riproposizione dello stesso meccanismo ma senza un “padrone” come gli Stati Uniti che, in ultima istanza, decide il da farsi.
Nuove e vecchie sfide
Esistono poi delle sfide geopolitiche che impongono che l’Ue diventi un attore protagonista: una geograficamente più vicina, data dal sostanziale disimpegno statunitense nell’area che va dal Marocco all’Afghanistan, pur mantenendo una forte ascendenza diplomatica e soprattutto legando a sé quei Paesi tramite la vendita di armamenti, e una più lontana, data dalle tensioni nell’Indopacifico legate all’assertività ed espansionismo della Cina, supportata, per mere contingenze politiche, dalla Russia – le recenti parole del ministro degli Esteri Sergej Lavrov su Taiwan sono illuminanti in questo senso.
Risulta interessante, per comprendere meglio come in seno all’Ue si stia assumendo una maggiore responsabilità verso la politica estera, soffermarsi proprio sul fronte indopacifico, stante la presenza ormai pressoché stabile di missioni Ue nel nostro vicinato, segnale che a Bruxelles – e più ancora a Parigi – si sia presa in carico la questione della sicurezza dell’area Mena.
Sempre nel discorso della presidente von Der Leyen di settembre, si è parlato della definizione di quella che sarà una strategia indopacifica europea per essere più presenti e attivi in quel teatro fondamentale diventato, da tempo, il fulcro della geopolitica globale. Ancora prima, a giugno, era stato lo stesso ministro della Difesa giapponese a richiedere una maggiore presenza dell’Ue in quel settore per contrastare la Cina: sulla base dell’accordo di partenariato strategico e della strategia dell’Ue per la cooperazione nell’Indopacifico, il Giappone intende infatti sviluppare ulteriormente le sue relazioni con l’Unione, vista ora come partner strategico per stabilire congiuntamente la pace, la sicurezza e la stabilità nell’area e anche oltre. Il ministro Nobuo Kishi aveva ricordato in quell’occasione come questa cooperazione militare fosse già una realtà portando ad esempio l’attività di antipirateria al largo della Somalia nel Golfo di Aden o le esercitazioni tenute con singoli paesi dell’Ue nella regione asiatica, come ad esempio quelle effettuate con la Francia e i Paesi Bassi.
Limiti e nodi
Esistono dei limiti e dei nodi da sciogliere perché l’Unione dei 27 possa mettere in campo strategie comunitarie per la Difesa e la politica estera indipendenti. Dal punto di vista del procurement, quindi anche della cooperazione industriale, spesso e volentieri non si partecipa ai meccanismi europei preferendo “fare da sé”. Riportiamo alcuni esempio tuttavia emblematici di una tendenza ben radicata nell’Ue: le fregate Fremm, gioiello e vanto della cantieristica nazionale, sono frutto di un programma Occar ma, in ultima analisi, si tratta di una collaborazione bilaterale tra Francia e Italia; il Male Rpas, il programma per il nuovo Uav europeo, stenta a decollare coi suoi partecipanti (Spagna, Germania, Italia e Francia) che spingono il progetto verso direzioni diverse, e pertanto riaprendo le porte del mercato europeo ai prodotti statunitensi (Mq-9 Reaper in testa); potremmo continuare parlando dell’Airbus A-400, un velivolo “nato male” che sta mostrando tutti i suoi limiti derivanti da un approccio di progettazione troppo “civile” per un ambito militare (vedere movimentazione dei carichi).
Insomma, sebbene ci sia, e spesso funzioni, la volontà di mettere a sistema le capacità industriali europee, frequentemente manca un vero e proprio “indirizzo” unico, che sarebbe ottenibile con una – non più procrastinabile – razionalizzazione dei compiti all’interno dell’Ue: in parole povere una settorializzazione dove ciascuno Stato possa contribuire col proprio know how senza sovrapposizioni. Qualcosa che sarà molto difficile ottenere.
Per quanto riguarda l’ambito politico, se possibile, la strada è ancora più in salita: la Francia sta, quasi bellicosamente, approfittando dell’uscita dall’Ue del Regno Unito per cercare di diventare il Paese guida della politica estera dell’Unione. Più che la questione dei sottomarini Shortfin Barracuda, la cui disdetta da parte dell’Australia ha generato tiepide reazioni a Bruxelles che la considera una questione puramente francese – decisione che è condivisibile dal punto di vista puramente pragmatico, ma opinabile da quello politico – è bene ricordare quella legata all’intervento armato anti-terrorismo in Sahel: l’Eliseo, che sta ponendo fine alla sua missione Barkhane, cerca di far diventare Task Force Takuba una missione Ue a tutti gli effetti; riuscendoci, se andiamo a guardare i Paesi che vi partecipano.
Parigi, essendosi assicurata l’appoggio di Berlino, punta decisamente all’egemonia in seno all’Ue, e a Roma dovrebbe suonare un campanello di allarme, perché spesso gli interessi francesi nel nostro Mediterraneo Allargato, non corrispondono affatto ai nostri (vedere caso Libia/Turchia).
Tempus fugit, e con gli Stati Uniti che cercano partner a cui affidare dossier di cui non vogliono (e possono) più occuparsi dovendo pensare a un Indopacifico sempre più bollente, l’Italia dovrebbe, sfruttando proprio l’occasione data dalla volontà dell’Ue di avere una Difesa comune, non perdere le occasioni date dalle contingenze (vedere Algeria) per proporsi, non come alternativa alla Francia, ma come sua collaboratrice, se non altro per moderarne le ambizioni.
Nato/Ue: collaborazione non sovrapposizione
Il rapporto dell’Ue con la Nato rappresenta sia un ostacolo che una opportunità. Innanzitutto nell’agenda Ue troviamo la definizione di una nuova Strategic Compass, ma è anche previsto un riassetto dei rapporti con l’Alleanza che porterà a una nuova dichiarazione politica da rilasciare prima del vertice di giugno 2022. Si rende del resto necessaria una rimodulazione tra i due organismi sovranazionali: una separazione netta dei compiti – almeno in questa fase embrionale di difesa Ue – per evitare inutili, dispendiosi e controproducenti “raddoppi” di comandi, missioni, strumenti ecc.
In particolare è tempo di ridefinire i rapporti transatlantici con un approccio costruttivo, per separare ambiti e sfere d’azione, senza i toni accesi usati, a volte, dalla Francia. In questo senso Italia e Germania, se riuscissero ad avere una linea comune, troverebbero terreno fertile per intavolare la discussione su posizioni utili all’Unione grazie ai particolari rapporti che hanno con gli Stati Uniti.
In particolare l’Italia, sfruttando questa opportunità, dovrebbe cercare di proporre un nuovo segretario generale dell’Alleanza più attento al Fronte Sud, quindi da ricercare nei Paesi mediterranei, in modo che si possa condividere maggiormente la stessa visione strategica tra Ue e Nato ed evitare che risorse militari e finanziarie vengano distribuite molto di più sul Fronte Est per assecondare la “russofobia” (a volte giustificata) dei Paesi più orientali.
“Incontro ma non scontro”, per disinnescare le preoccupazioni, che sanno di anatema, dell’attuale segretario dell’Alleanza Jens Stoltenberg, e per avere finalmente un inizio di autonomia strategica che permetterebbe di porre le basi per una politica estera comune, che, come abbiamo già detto, sarà difficile da ottenere ma non impossibile, e che a sua volta fornirebbe le basi per una vera Difesa comune e un futuro (lontano) esercito europeo.