In almeno 50 zone di guerra nel mondo, i principali garanti della pace non sono le locali forze di polizia o dell’esercito, ma i caschi blu dell’Onu.
Con 78mila soldati e 25mila civili presenti in 14 Paesi, gli uomini delle Nazioni Unite costituiscono la seconda principale forza militare schierata all’estero, subito dopo l’esercito degli Stati Uniti.
Da Haiti al Mali, dal Kosovo al Sud Sudan, le forze di peacekeeping hanno il compito di mantenere la pace e la sicurezza nei Paesi martoriati dalla guerra. I caschi blu proteggono i civili – circa un miliardo e mezzo di persone -, addestrano le forze di polizia, disarmano le milizie, forniscono aiuti di primo soccorso, monitorano il rispetto dei diritti umani e promuovono l’uguaglianza di genere.
Il fallimento delle operazioni di peacekeeping
Nella maggior parte dei casi, tuttavia, i caschi blu assistono spesso impotenti all’infuriare delle rivolte. Anche quando riescono nella loro impresa di ristabilire l’ordine, spesso devono abbandonare il territorio ancor prima di aver posto radici solide per una pace duratura.
Le ragioni del fallimento delle operazioni di peacekeeping sono due. La prima è la mancanza di risorse. I caschi blu vengono sponsorizzati dai Paesi membri e, spesso, i finanziamenti risultano insufficienti. Con a disposizione solo 7 miliardi di dollari all’anno, meno dello 0,5 per cento della spesa militare globale, alle Nazioni Unite viene chiesto di contribuire a risolvere più di un quarto dei conflitti in corso.
A ciò si aggiunga che l’Onu non ha a disposizione un proprio esercito, ma conta sui soldati reclutati dagli Stati membri. Questi ultimi, solitamente, preferiscono non rischiare la vita dei propri militari in conflitti in cui non hanno alcun interesse.
La conseguenza è che trascorrono mesi prima che vengano arruolate le truppe necessarie e, spesso, si tratta di soldati sottopagati e poco addestrati, provenienti dai Paesi in via di sviluppo. È emblematico che, nel 2018, i principali Paesi che hanno contributo a fornire soldati alle missioni di peacekeeping siano stati Bangladesh, Etiopia e Ruanda.
Una volta forniti i loro uomini, i Paesi membri tentano di interferire nelle operazioni delle Nazioni Unite, con il risultato che i soldati rispondono più agli ordini dei loro governi che alla catena di comando delle Nazioni Unite.
Una strategia sbagliata
La seconda ragione alla base del fallimento delle operazioni di peacekeeping dell’Onu è di natura strategica. Nei territori di guerra, le Nazioni Unite adottano un approccio top-down per porre fine ai conflitti. Detto semplicemente, i caschi blu sostengono i governi dei Paesi ospitanti e prediligono stringere accordi con le élite al potere.
In concreto, il metodo utilizzato dall’Onu nei Paesi in guerra si basa sull’organizzazione di conferenze di pace, mirate al raggiungimento un accordo tra le parti in conflitto. Una volta raggiunta una mediazione, i caschi blu spingono per indire le elezioni nel minor tempo possibile, ritenendole il modo migliore per consolidare la pace. Le votazioni, però, non sono sempre uno strumento risolutivo: se avvengono prima che un Paese sia pronto possono causare più danni che benefici.
Ripensare il peacekeeping
Nel tempo, questo approccio si è rivelato fallimentare soprattutto per un motivo: ovvero perché non tiene in conto che, in molti casi, i conflitti sono il risultato di contrasti locali e non soltanto nazionali o internazionali. Più spesso di quanto si possa pensare, le dispute riguardano questioni di importanza quotidiana, come la terra, le risorse idriche, il bestiame o il potere amministrativo.
Al di là dei difetti organizzativi, tuttavia, in molte zone di guerra, i caschi blu rimangono le uniche forze in grado di proteggere la popolazione civile dagli abusi degli eserciti locali e dai gruppi ribelli. Occorrerebbe, dunque, ripensare le missioni di peacekeeping, in modo che tengano maggiormente in considerazione la dimensione locale dei conflitti.
Un tentativo in questa direzione era già stato fatto nel giugno 2015. In occasione dell’Assemblea Generale del Consiglio di Sicurezza, un gruppo di revisione indipendente, incaricato dalle Nazioni Unite, aveva sottolineato l’importanza di adattare le missioni al contesto in cui venivano realizzate.
L’approccio bottom-up
Il principale problema delle Nazioni Unite sarebbe, dunque, il voler applicare dall’alto principi internazionali alle diverse situazioni regionali, senza adattarli alle esigenze della popolazione civile. Secondo la ricercatrice Séverine Autesserre, la strategia corretta sarebbe quella contraria, ovvero l’approccio bottom-up: partendo dal basso, dalle realtà locali, per elaborare un progetto appropriato.
In concreto, l’Onu dovrebbe concentrarsi sulla creazione di uffici e dipartimenti specializzati all’interno del territorio in cui opera. Il personale dovrebbe essere composto da esperti nell’analisi e nella risoluzione dei conflitti locali. I membri dello staff dovrebbero essere assunti per una conoscenza profonda del contesto delle operazioni, oltre che per la padronanza delle lingue parlate nel territorio.
Sempre secondo la Autesserre, la precedenza dovrebbe essere data a funzionari locali, in netta opposizione rispetto al modello adoperato fino a questo momento, che si basava sull’assunzione di stranieri. Proprio l’impiego di personale straniero ha costituito un ricorrente motivo di malcontento tra la popolazione civile.
Le tensioni sono sorte in questi anni principalmente a causa del tenore di vita ostentato dagli stranieri in missione, ben più agiato rispetto alla popolazione in difficoltà. Le critiche sono state dure, a tal punto che si è parlato anche di neocolonialismo. Un simile atteggiamento ha spesso causato una totale mancanza di collaborazione nei confronti dei progetti delle Nazioni Unite.
Strumento imparziale e ampiamente accettato, le operazioni di peacekeeping possono avere un ruolo ancora più decisivo nei conflitti internazionali, se ripensate in maniera adeguata.