Nei giorni scorsi, le maggiori agenzie internazionali hanno dato la notizia di uno storico accordo siglato tra Emirati Arabi Uniti ed Etiopia: è stato lo stesso primo ministro etiope, Abiy Ahmed, a dichiarare che i due Paesi hanno suggellato un patto “atto a diminuire la disoccupazione interna al nostro Stato e ad intensificare le relazioni bilaterali” con la potenza del Golfo. Il trattato, firmato lo scorso 8 luglio, fa parte di una lunga serie di mosse messe in moto dell’élite politica emiratina per avvicinarsi alla nazione del Corno d’Africa. Strategia mirata o impulso filantropico?
Un Mare (Rosso) di ambizioni
Per comprendere la recente strategia di avvicinamento di Abu Dhabi nei confronti di Addis Abeba, dobbiamo partire da un quadro geopolitico più ampio: quello che va a coprire l’intera regione ai due lati del Mar Rosso. Da una parte, Arabia Saudita ed Emirati, Paesi dalla profonda ambizione che puntano ad affermarsi come leader del mondo arabo e mediorientale, dall’altra Eritrea ed Etiopia, reduci da una lunga guerra che li ha visti contrapposti per decenni ed ora alla ricerca di riscatto e di un punto dal quale ripartire a livello sociale ed economico.
Questi due mondi, apparentemente così diversi, si sono incontrati ufficialmente per la prima volta nel luglio dello scorso anno, in occasione dell’accordo tra i due Stati del Corno d’Africa: un patto molto importante che non solo ha sancito il cessate il fuoco definitivo tra le parti, ma che per la prima volta ha dato anche il via alle relazioni bilaterali e diplomatiche. Un avvenimento storico che, per gli Emirati e l’alleato saudita, ha il sapore di un trionfo, visto il forte contributo dato dalle due nazioni arabe all’intero processo di negoziati, che ha coinvolto anche Gibuti (i cui confini con l’Eritrea sono spesso causa di dispute territoriali). La pace nell’Africa orientale, definita dal governo saudita “una storica pietra miliare per i popoli etiope ed eritreo” è di importanza fondamentale per la Penisola arabica: la stabilità nella regione consente di poter stabilire proficui accordi economici, l’esportazione di manodopera a basso costo, e il consolidamento di una presenza militare che, ad oggi, vede già gli Emirati presenti con una base ad Assab, in Eritrea (fondamentale porta d’accesso allo Yemen meridionale), e l’Arabia Saudita schierare alcune delle sue truppe a Gibuti.
Le scelte di Abiy Ahmed
Ahmed, eletto primo ministro il 2 aprile del 2018, si è presentato sulla scena politica come una sorta di figura rivoluzionaria: la sua storica visita in Eritrea in occasione dell’accordo di pace, la prima di un leader etiope dopo più di vent’anni, si affianca a una presa di posizione negli affari interni come non se ne vedevano da tempo dalle parti di Addis Abeba: scuse ufficiali per la repressione di Stato, revisione della lista dei gruppi considerati terroristici, dialogo con le opposizioni e tra i differenti gruppi etnici (lui stesso è un Oromo, in Etiopia l’etnia maggioritaria ma a lungo tempo perseguitata). Un programma ambizioso, ma fondamentale per raggiungere la stabilità politica ed economica di cui il Paese ha un disperato bisogno, soprattutto in seguito all’inasprirsi della relazione con la Cina (il cui investimento in Etiopia è andato progressivamente diminuendo a causa dell’enorme debito accumulato dai precedenti governi nei confronti della potenza asiatica). In questo senso, l’arrivo di Abu Dhabi sulla scena può essere definito “la cosa giusta al momento giusto”: nonostante i primi segnali di interesse risalissero già al 2013, sono state proprio le scelte di Ahmed a dare una svolta ai rapporti tra i due Stati.
La privatizzazione di grossi segmenti dell’economia etiope, come il settore delle telecomunicazioni e la compagnia aerea di bandiera, aprono infatti infinite possibilità agli Emirati, il cui nuovo regime fiscale interno rende decisamente più proficuo investire all’estero. Per poter sfruttare al meglio questa situazione, è però necessario che l’industria in Etiopia sia in grado di svilupparsi rapidamente ed efficacemente, in un momento nel quale il settore agricolo coinvolge circa l’85% della popolazione. Per questo, i recenti trattati con Addis Abeba prevedono massicci investimenti emiratini non solo nel campo delle infrastrutture, ma anche in quello dell’occupazione e in quello industriale: lo scorso 15 luglio è stato infatti firmato un Memorandum d’intesa da 100 milioni di dollari che prevede lo sviluppo delle micro, piccole e medie imprese impegnate nell’innovazione tecnologica. Un’iniezione di denaro nelle casse etiopi che, sommato ai precedenti (tra i quali spiccano i 3 miliardi erogati in occasione dell’accordo di pace con l’Eritrea), nell’ultimo anno ha permesso di superare i 10,9 miliardi di birr (circa 320 milioni di euro) in aiuti e investimenti “made in the Emirates”, per un totale di 135 progetti in corso.
I profitti degli Emiri
Questo idillio non deve però essere visto come un puro atto di generosità da parte degli Emirati Arabi: dietro di esso, vi è un ben preciso calcolo di natura tecnica e strategica. Partiamo ad esempio dall’accordo dello scorso 8 luglio, che, promosso come “un fondamentale impulso alla formazione tecnica di migliaia di etiopi”, di fatto consentirà al governo emiratino di ricevere 50mila lavoratori da impiegare come manodopera nei suoi sempre più ambiziosi progetti, con l’opzione di accoglierne altri 200mila da qui al 2023. Inoltre, il rinnovato dialogo di Abiy Ahmed con la vicina Somalia può fungere da indiretta testa di ponte nei rapporti tra gli Emirati, storicamente alleati della regione secessionista del Somaliland, e il governo filoturco e qatariota di Mohamed Abdullahi Mohamed, un’eventualità che trova conferma nella recente visita di Stato del primo ministro etiope a Mogadiscio. Ma gli Emiri non devono prendere sottogamba la pur sempre complessa situazione nel Corno d’Africa: il rischio di ritrovarsi con un pugno di mosche o quasi, come occorso alla Cina, resta alto, soprattutto a livello economico. Per questo motivo, Abu Dhabi deve agire utilizzando una sofisticata diplomazia che sappia combinare gli interessi finanziari con quelli politici, ed essere in grado di mediare con i suoi stessi alleati sospettosi della nuova svolta etiope (in primis l’Egitto, al quale le dichiarazioni di Ahmed sul voler ricostruire la flotta militare nazionale hanno dato non poco fastidio). Se riuscirà a farlo, sarà soltanto l’ennesima conferma del peso e dell’abilità diplomatici ormai raggiunti dagli Emirati.