Il risveglio identitario dei popoli turchici sarà ricordato dalla posterità come uno degli eventi più significativi della prima parte del ventunesimo secolo. Perché la transizione multipolare, più che lungo l’asse Washington-Mosca-Pechino, si sta scrivendo all’interno di quello spazio variegato e multiforme, esteso dai Balcani alla Mongolia, abitato dalla prole delle valli perdute di Turan ed Ergenekon.

È nel nome del panturchismo che è stato costituito il Consiglio Turco, uno dei motori dell’integrazione eurasiatica. È nel nome del panturchismo che sta venendo riscritta la geografia del Caucaso meridionale a detrimento della Russia. È nel nome del panturchismo che sta prendendo forma un tutt’uno tra Istanbul e Samarcanda a base di rotte ferroviarie, autostrade, collegamenti aerei e connessioni terra-mare-terra. È nel nome del panturchismo che la Turchia erdoganiana è sbarcata in Mongolia, un cuscinetto tra Russia e Cina che, se abilmente maneggiato, potrebbe essere convertito in una fastidiosa spina nel fianco. Ed è sulla forza attrattiva del panturchismo che gli Stati Uniti stanno scommettendo ai fini della deflagrazione della Nuova Via della Seta (il fattore Xinjiang) e della derussificazione politica (e culturale) dell’Asia centrale, dell’Ucraina e della Moldavia.

Scrivere di panturchismo è più che importante – è fondamentale –, perché è in errore chi crede che il prezzo di un ordine internazionale turco-centrico verrà pagato esclusivamente dall’asse Mosca-Pechino. Gli accadimenti della storia recente, invero, sembrano suggerire, anzi dimostrare, che la senile, sterile e stanca Europa debba temere l’avanzata (in)arrestabile panturca né più né meno di Russia e Cina.

Perché l’Europa dovrebbe temere il panturchismo

Entro la metà del ventunesimo secolo, a meno di drastiche e durevoli inversioni di tendenza – cioè la fine dell’erdoganismo nel dopo-Erdogan –, la Turchia potrebbe essere abitata da un popolo iper-nazionalizzato e allevato all’adorazione dogmatica della trinità panturchismo-ottomanesimo-islamismo, indi orientato e incline all’antagonismo nei confronti di una sequela di realtà civilizzazionali prospicienti, in primis quella occidentale.

Quello turco, nel 2050, potrebbe essere un popolo di 93 milioni di persone – proiettato su un’anziana Unione europea, che nello stesso anno potrebbe essere abitata da 441 milioni di persone – caratterizzato da una divisione antipodica: da una parte una generazione sul viale del tramonto, composta da capelli bianchi secolarizzati, europeizzati e con il santino di Mustafa Kemal, dall’altra una generazione fiorente e prestante, fatta di capelli neri ritornati alle origini, cioè all’islam e all’Asia, cresciuti avendo come miti Maometto II, Solimano il Magnifico, Enver Pasha e Necmettin Erbakan, come punti di riferimento i Lupi Grigi, come momenti di adunata nazionale la presa di Costantinopoli e gli anniversari delle vittorie ottomane contro le potenze europee e come valori appresi dai testi scolastici il culto del martirio, il suprematismo turco, un conservatorismo religioso ammiccante al qaedismo, l’antigiudaismo e la cristofobia.

Più o meno nello stesso periodo, stimano gli studiosi, l’inverno demografico dei popoli europei dovrebbe cominciare a manifestare la propria forza cataclismica, incidendo negativamente sulla sostenibilità degli stati sociali e sulla competitività dei mercati del lavoro. Un fenomeno, quello della piaga delle culle vuote, che, controbilanciato dalla cultura della natalità tipica di alcune minoranze etniche oramai permanentizzatesi sul suolo europeo, potrebbe condurre alla riscrittura ex novo del volto e dell’anima di intere nazioni, tra le quali Bulgaria, Francia, Germania, Romania e Svezia.

Non è fantapolitica

Le implicazioni di questo scenario, sul quale soltanto il tempo potrà emettere una sentenza – fato ineluttabile o ipotesi fantapolitica evitabile –, sarebbero particolarmente esiziali per la stabilità dell’Europa, una realtà poststorica e post-identitaria costretta a fronteggiare le minacce rappresentate da eventi come la progressiva trasformazione della Bulgaria in una nazione a maggioranza turco-rom e la conversione della minoranza turca in una massa critica in Austria, Germania e Paesi Bassi.

Fantapolitica da bar? No, tutt’altro. La questione della (possibile) rivoluzione etnica nel novero dei Paesi di cui sopra sta venendo studiata da un numero crescente di centri di ricerca e università, mentre il tema delle quinte colonne e degli eserciti invisibili che vanno espandendosi nelle periferie dimenticate delle grandi città del Vecchio Continente è appannaggio dei servizi segreti delle principali cancellerie europee, da Parigi a Sofia.

In Germania, dove i turchi, oggi, costituiscono più del 6% della popolazione totale, il potente Direttorato degli Affari Religiosi (Diyanet) supervisiona e supporta economicamente quasi un terzo di tutte le moschee presenti sul territorio – ossia più di 900 su un totale di 3mila – e la Commissione parlamentare sulla sicurezza nazionale ha stimato che l’Agenzia di Intelligence Nazionale (MIT, Milli Istihbarat Teşkilati) disponga di un vero e proprio esercito di spie ed informatori composto da circa 6mila persone.

Un caso, quello tedesco, che non è né isolato né atipico, perché la presenza di reti occulte al servizio di Ankara, per conto della quale hanno consumato omicidi, organizzano dimostrazioni, mobilitano voti in direzione di Erdogan, portano avanti spedizioni punitive e sobillano gravi disordini – si pensi, a questi ultimi due propositi, all’ottobre di tensione che ha sconvolto la Francia lo scorso anno –, è stata accertata anche ad Amsterdam, Parigi, Sofia e Vienna.

La Turchia dell’era Erdogan ha messo l’Europa sotto scacco più volte negli anni recenti, come palesato dal ricatto migratorio, ma ciò che potrebbe risultare dalla combinazione letale di rinazionalizzazione delle masse turche e smarrimento etno-demografico delle masse europee è diverso sia in forma sia in sostanza. Perché in gioco, più che una stabilità contingente, v’è il futuro stesso dell’Europa quale attore storico.