Sorpresa e silenzio: sono questi i due elementi principali che contraddistinguono la politica italiana sulla Libia da quando Haftar avanza verso Tripoli. Anzi, a dire il vero, da qualche mese a questa parte. Sorpresa e silenzio emergono da Roma quando il generale della Cirenaica conquista sparando pochi colpi il Fezzan, compreso il campo di El Feel gestito dall’Eni assieme alla Noc, sorpresa e silenzio si ha anche quando nulla viene messo in campo quando i viaggi da Tripoli e Bengasi verso le capitali dei paesi del Golfo aumentano di settimana in settimana. Sorpresa e silenzio dunque, che continuano anche in queste ore nel pieno della battaglia per Tripoli.
Italia in affanno
La Libia è certamente il punto più delicato della nostra politica estera. Ma questo a prescindere dai governi e dal loro colore. Destra e sinistra, azzurri e rossi, gialli e verdi, chi più e chi meno tutti tra Palazzo Chigi e Farnesina negli anni hanno a che fare con le bizzarrie di Gheddafi prima e con il caos successivo alla caduta del rais poi. I rapporti con Tripoli possono essere nostro punto di forza della strategia nel Mediterraneo, così come nostro vulnerabile tallone d’Achille. Il governo attuale, pur tra alti e bassi, dimostra all’inizio di avere una non indifferente attenzione verso la Libia. Nel suo primo incontro con Trump, il premier Conte riesce a strappare la promessa americana di una cabina di regia a guida italiana per il dossier libico. Si mette in moto la macchina diplomatica italiana, una macchina per la verità che forse soffre dell’inesperienza dei nuovi arrivati, ma che comunque procede verso l’organizzazione di un vertice guidato da Roma.
Si inserisce in questo contesto il vertice di Palermo, partito sotto gli auspici di un appuntamento risolutore con tanto di presenza in Sicilia dello stesso Trump e di Putin, finito poi essere un summit salvato solo dall’intervento di Putin che a fine ottobre invita ad Haftar a partecipare. I vertici di allora dei servizi, fanno notare a Conte che in effetti mettere in piedi un summit internazionale in un mese è alquanto impegnativo e si rischia il flop. Alla fine però a Palermo vanno 38 delegazioni internazionali, si prendono precisi impegni sul futuro del percorso per portare alla pace e dopo la foto di gruppo con alle spalle il Mediterraneo, l’Italia ne esce a testa alta. In effetti quel vertice sembra dare segnali abbastanza positivi per il nostro Paese: Roma ha di nuovo contatti con Haftar, riesce a guidare un summit e lo fa da protagonista, sembra prendere corpo quella cabina di regia tanto aspirata dall’esecutivo. Anche il dopo, promette bene: Conte incontra spesso sia Haftar che Al Sarraj e Roma diventa crocevia dell’affaire libico.
Ma, come spesso capita ed anche qui a prescindere dai governi e dal loro colore, l’Italia poi sembra cullarsi sugli allori. Non ci si accorge che Emirati ed Arabia Saudita scalpitano per prendere in mano la situazione, si dà per scontato l’appoggio degli Usa di Trump, lo stesso Conte forse pensa di mediare tra Al Sarraj ed Haftar al pari di come media a Palazzo Chigi tra Di Maio e Salvini. La Libia è però terreno ostico e non concede distrazioni. L’Italia invece si distrae, i nostri servizi sanno delle evoluzioni sul campo ma a Roma la concentrazione è rivolta ad altro. Il compitino sembra portato a casa e dunque ecco che emerge il primo degli elementi sopra citati: il silenzio. Poi, a fatti compiuti, arriva anche la sorpresa. E adesso?
Come l’Italia può recuperare
Adesso, per l’appunto, ci si chiede cosa stiamo rischiando. La risposta è tanto semplice, quanto ambigua: stiamo rischiando il tutto ed il nulla. Come scritto su Gli Occhi della Guerra, si rischia di perdere la Libia perché altri attori sul campo stanno spingendo per l’arrivo a Tripoli di un attore che non abbiamo mai sostenuto anche se negli ultimi mesi abbiamo ricontattato. Ma è anche vero che la Libia l’abbiamo persa più volte e poi, improvvisamente, recuperata. L’abbiamo persa con la sconfitta nella guerra e sembra oramai lontana con l’avvento di un Gheddafi che nel 1970 caccia tutti i nostri connazionali. Poi però, al tempo stesso, di Tripoli diventiamo gli unici interlocutori occidentali ed il pregiato petrolio libico arriva dritto nel nostro Paese. E nel 2008 si firma anche un trattato di amicizia che ci porta ad un rapporto privilegiato con il Paese dirimpettaio. Poi arriva il 2011, la guerra a cui partecipiamo ed in cui contribuiamo a buttare giù l’alleato. Il resto è cronaca degli ultimi anni: nonostante eventi apparentemente negativi, comunque riusciamo a rimanere in Libia. Ed anche stavolta potremmo in qualche modo cavarcela.
In primis, perché non è detto che Al Sarraj cada. L’uomo comparso dal nulla nel 2016 e subito appoggiato dall’Italia, viene dato per morto da tre anni. Ma lui è ancora lì: siede in una stanza del palazzo presidenziale in cui gli basta andare un attimo nel piano di giù per sentirsi all’estero non controllando di fatto nemmeno l’atrio di quell’edificio, ma è ancora lì. In secondo luogo, non è detto che Haftar vinca. Quando parte l’operazione per prendere Tripoli, l’impressione è quella di una traversata concordata con tutti. Adesso però il tutto assume sempre più le proporzioni di una battaglia iniziata soprattutto su impulso saudita e quando di mezzo ci sono input dei Saud, visti i precedenti è bene per l’alleato in questione iniziare a fare gli scongiuri. Yemen e Siria sono lì a testimoniarlo. Ma anche se alla fine Haftar dovesse prendere Tripoli, gli scenari non sono del tutto negativi per l’Italia se a Roma si torna nuovamente a pieno regime ad occuparsi del dossier libico. Il generale potrebbe lasciare Al Sarraj fino alle presidenziali ma anche in caso di sua ascesa quale unico padrone del Paese, Haftar sa che non può fare a meno dell’Italia. La nostra conoscenza del territorio, la nostra esperienza pluridecennale nel paese sono elementi vitali per il generale per governare.
Roma dunque rischia di perdere la Libia, ma non l’ha ancora persa. L’Italia però adesso deve eliminare l’effetto sorpresa e dare un taglio al suo silenzio. Comunque vada, occorre ancora qualcuno che riesca e mediare tra le parti, specie se la battaglia per Tripoli si dilunga, e questo né i sauditi e né gli emiratini o i qatarioti sono in grado di farlo. Inoltre, possiamo spendere politicamente i nostri ottimi rapporti conRussia ed Egitto. Da Mosca e da Il Cairo arrivano delegazioni nutrite ed importanti a Palermo nel vertice di novembre, segno evidente delle considerazione dell’Italia tra i leader di questi Paesi. In parole povere, le carte da giocare nel nostro mazzo sono ancora parecchie. Ma occorre tornare ad usarle e ad evitare, ancora una volta, di lasciare spazio al silenzio ed all’effetto sorpresa.