Secondo il direttore di Limes Lucio Caracciolo la geopolitica “è studio di casi specifici, per i quali è necessario il confronto fra le diverse rappresentazioni dei soggetti in competizione per un dato territorio, su varie scale e in differenti contesti temporali, e fra i rispettivi progetti, tutti ugualmente legittimi”. In questo contesto, anche per la corsa allo spazio si può parlare di vera e propria competizione geopolitica”.

Perfino nell’apparentemente sconfinato spazio attorno alla Terra esistono punti di rilevanza strategica per il cui controllo è scattata una corsa tra grandi potenze che ha in Stati Uniti e Cina i maggiori attori coinvolti. “Territori” fondamentali il cui controllo è importante per le ripercussioni terrestri della corsa spaziale. Pensiamo alle orbite geostazionarie in cui gli Stati Uniti hanno piazzato i satelliti Gps o ai punti di Lagrange, che consentono un mantenimento in orbita pressoché permanente di satelliti e corpi orbitanti senza grandi dispendi energetici, uno dei quali è stato toccato dal satellite cinese Queqiaoponte tra l’Impero di Mezzo e il primo rover da esso lanciato sulla faccia nascosta della Luna.

L’intensificazione della corsa allo spazio e la conseguente gara militare e tecnologica per la corsa alla realizzazione dei mezzi per la conquista dell’ultima frontiera della competizione tra potenze ha fatto venire meno l’utopica convivenza scientifica di cui si era ammantata, nelle prime decadi del nuovo decennio, la ritrovata spinta dell’interesse per lo spazio. Convivenza, appunto, ammantata di utopia perché in realtà funzionale a ben precisi interessi politici o industriali, che però aveva portato a accordi e alleanze ora difficili da gestire.

Lo sa bene lItalia del governo Conte II, che presto dovrà formalizzare alla Cina il suo recesso ufficiale da un piano di collaborazione portato avanti negli anni scorsi e certificato nel memorandum per la “Nuova via della seta” riguardante la cooperazione nell’esplorazione spaziale. ” In un capitolo celeste della Via della seta”, scrive Repubblica, “la nostra Agenzia spaziale (Asi) avrebbe dovuto collaborare alla realizzazione della nuova, prima vera stazione orbitale cinese, la Tiangong 3, il Palazzo celeste, fornendo uno dei moduli pressurizzati della struttura, gioielli di tecnologia prodotti nello stabilimento Thales Alenia Space di Torino. Quel modulo non arriverà” a causa delle pressioni statunitensi.

Si concretizza quanto fatto notare dal professor Carlo Pelanda nella postfazione al recente saggio Geopolitica dell’esplorazione spaziale di Marcello Spagnulo. “Per competere con la Cina”, scrive Pelanda, “l’America è troppo piccola e dovrà avvalersi del contributo dell’Ue o di specifiche agenzie nazionali dei Paesi alleati. Pertanto si può prevedere che l’eso-competizione avrà un impatto sulle formule di alleanza e sui trattati tecnologici”. Analisi molto coerente con gli ultimi accadimenti: l’Italia ha virato sui più rassicuranti (per gli alleati geopolitici) programmi europei e sul programma Usa di esplorazione della Luna, in cui a novembre l’Asi è stata inclusa come partner privilegiato attraverso Thales-Alenia, joint venture avente al suo interno Leonardo, destinata a giocare un ruolo importante nelle nuove commesse.

Il problema principale dell’Italia è stato legato alle difficoltà riscontrate nel far comunicare il livello operativo della ricerca scientifica e tecnologica con la direzione politica dell’Asi. Guidata a lungo da una personalità di assoluto profilo scientifico come Roberto Battistonastrofisico recentemente premiato personalmente in Cina dal presidente Xi Jinping, l’Asi è stata poi colpita in era gialloverde dallo spoil system imposto dal ministro dell’Istruzione Marco Bussetti e non adeguatamente indirizzata strategicamente. La responsabilità, ad esempio, di aver fatto il passo più lungo della gamba nei rapporti con Pechino non è dell’ente spaziale, ma del governo Conte I, che ha firmato un accordo rafforzante la prima partnership spaziale italo-cinese del 2017, ignorando volutamente il fatto che gli Usa avrebbero storto il naso e che uscire dall’accordo sarebbe stato altrettanto problematico.

Il governo Conte II ha ulteriormente aumentato la confusione: nell’autunno scorso Lorenzo Fioramonti, successore di Bussetti, ha implicitamente comunicato ai cinesi il prossimo stop del programma, causando un problema di comunicazione con Palazzo Chigi, intestatario della politica spaziale delegata al sottosegretario Riccardo Fraccaro. L’Italia, dunque, ha ricevuto un richiamo al realismo che potrebbe, sul medio e lungo periodo, dare spazio di manovra al suo reale punto di forza: l’approfondita partnership strategica con gli alleati storici e l’enorme potenziale in campo di ricerca e sviluppo delle più importanti tecnologie spaziali. Con la consapevolezza che la definizione delle linee guida della “geopolitica dello spazio” non è affar nostro, volenti o nolenti. Ma che anche dovendo accettare le linee rosse della scelta di campo Roma può ottenere dividendi positivi.





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