Si avvicina il Natale e in Italia ci sono diverse famiglie che vivono questo momento con uno spirito lontano dalle festività perché non riescono ancora a riabbracciare i propri cari che si trovano al centro di dispute internazionali causate da motivi più grandi di loro. Il settore marittimo da questo punto di vista è quello più colpito. Non solo i 18 pescatori di Mazara del Vallo trattenuti da tre mesi dal generale Haftar in Libia, l’Italia deve fare i conti con le navi italiane “Antonella Lembo” e “Mba Giovanni” da diversi mesi ancorate nelle baie cinesi.
Cos’è successo alle navi italiane in Cina
Due destini simili quelli delle navi “Mba Giovanni” e “Antonella Lembo” che, da diversi mesi, si trovano al largo dei porti cinesi in attesa di poter scaricare il carbone e sostituire gli equipaggi, i quali hanno oltrepassato i limiti di tempo stabiliti per rimanere all’interno delle rispettive imbarcazioni. Per la tutela della salute dei marinai vige infatti il regolamento previsto dalla “Carta dei diritti della gente del mare” che stabilisce la durata massima di permanenza di ciascun lavoratore a bordo delle imbarcazioni, fissandola in 4 mesi che si allungano a 6 in caso di viaggi oceanici. Cos’è successo in questo caso? Il limite di tempo è stato superato per via di dispute di carattere internazionale che hanno coinvolto loro malgrado i membri dell’equipaggio di entrambe le navi. La “Mba Giovanni” è partita dall’Australia, precisamente da Gladstone, il 12 giugno e avrebbe dovuto cambiare il suo equipaggio nel porto di Yosu, in Corea del Sud, o a Hong Kong il 26 giugno durante le operazioni di rifornimento. Qui l’armatore non ha provveduto a fare il cambio proseguendo con il viaggio e arrivando il 29 giugno a largo del porto di Huang Hua dove non è potuto entrare in quanto luogo non adibito ai “movimenti equipaggio” e cioè al cambio di turnazione dei marinai. Questo perché le autorità cinesi hanno abilitato a tali operazioni soltanto 10 porti per vie delle misure anti coronavirus.
Analoga situazione è quella della nave “Antonella Lembo” ferma al porto di Tianjin che si trova vicino a quello di Huang Hua. Proprio in quest’ultimo porto la nave italiana vorrebbe scaricare più di 91mila tonnellate di carbone metallurgico australiano e sostituire l’equipaggio ma, per le autorità cinesi, quella non è la struttura adibita ai movimenti equipaggio. Cosa dovrebbero fare gli armatori delle due navi italiane per effettuare il cambio di equipaggio? La soluzione c’è, ma comporterebbe una richiesta di cambio porto che richiederebbe giorni e la perdita della priorità acquisita nei porti di originaria destinazione, dove poi si dovrebbe ritornare con una perdita economica di non poco conto. Ne è nato quindi un braccio di ferro che vede gli interessi economici anteporsi a quelli legati alla salute dell’equipaggio.
Gli appelli per la tutela dell’equipaggio
La tutela della salute degli equipaggi è la garanzia che si sta rivendicando su più fronti. All’interno delle navi vi sono marittimi di Pozzallo, Monte di Procida, Messina, Napoli, Livorno, Crotone, Termoli, Vico Equense e Sant’Agnello. Per loro i rispettivi sindaci hanno deciso di inviare un documento congiunto al Presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte e al Ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. A tuonare su InsideOver è la voce del primo cittadino di Pozzallo, Roberto Ammatuna: “Dopo essere intervenuti singolarmente per la tutela dei nostri marittimi – afferma – sollecitando le autorità competenti senza alcun esito, adesso abbiamo pensato di agire in modo congiunto. Daremo al presidente del consiglio e al ministro degli Esteri il tempo congruo di cui necessitano per risolvere il problema, dopo di ciò torneremo alla carica con altre iniziative pur di riportare a casa i nostri uomini. Ci sono marittimi imbarcati da più di un anno che con assoluta dignità stanno affrontando questa situazione assolutamente incomprensibile”.
Il primo cittadino di Pozzallo racconta di essere in contatto quasi ogni giorno con il pozzallese Luca Porcelli attraverso messaggi su WhatsApp e di essere rincuorato dal grande spirito di sopportazione dei membri dell’equipaggio: “Quello che mi sorprende – dice Roberto Ammatuna – è la grande dignità che hanno questi uomini. Noi viviamo in una città che ha una profonda cultura marittima e i marittimi sono abituati a gestire questa situazione che genera ansia con grande controllo”. Ed ecco che arriva l’apprensione per un’azione politica incisiva finora non attuata: “A mio avviso – prosegue Ammatuna – il ministero degli Esteri dovrebbe svolgere una funzione più energica rispetto a quella attuata fino ad oggi. Non può la diplomazia italiana non riuscire a fare sentire la propria voce in una situazione di questo genere. Non si possono lasciare per motivi economici tutte queste persone a bordo senza risposte. Ognuno ha famiglia, ha stanchezza, non è una situazione che si può protrarre ancora a lungo”.
Quel pericoloso braccio di ferro tra Cina e Australia
Trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Al di là di ogni considerazione relativa alle procedure anti Covid messe in atto da Pechino e dei problemi relativi agli interessi economici degli armatori, la vicenda dei marinai italiani si può sintetizzare così. Le navi italiane stavano trasportando carbone dall’Australia alla Cina. E lo stavano facendo in un periodo poco propizio su questo fronte. Tra i due Paesi lo scontro commerciale è oramai palese e sul finire di questo 2020 sta toccando apici molto alti. Le questioni economiche hanno come sfondo ovviamente quelle politiche: l’Australia nel 2018 è stato il primo Paese al mondo a chiudere le porte al colosso cinese Huawei sulle tecnologie per la rete 5G, così come il governo di Canberra è stato tra i primi ad accusare la Cina di palesi responsabilità per la diffusione del nuovo coronavirus. A questo occorre aggiungere, come sottolineato da Federico Giuliani su InsideOver, l’impennata delle spese militari australiane attuate proprio per provare ad arginare Pechino.
I due Paesi si guardano con sempre maggiore diffidenza. Il perché è presto detto: l’Australia non vede di buon occhio l’espansione del “dragone” nel sud est asiatico, la Cina vede in Canberra un possibile avamposto anglofono filo Usa a ridosso della regione di sua massima influenza. E così alle prime mosse politiche australiane, Pechino ha risposto con l’inizio di un braccio di ferro economico. Nei mesi scorsi il governo cinese ha imposto dazi del 200% ai prodotti vinicoli importati dall’Australia, successivamente, come riferito dal The Guardian, sono stati presi di mira altri prodotti per un danno commerciale per Canberra stimato in 19 miliardi di Dollari. Nella seconda parte del 2020 si è quindi passati al carbone australiano: Pechino ne ha fortemente limitato l’importazione. Molte navi partite salpate dall’Australia e dirette in Cina con a bordo questa vitale materia prima, sono attualmente bloccate in rada di fronte i più importanti porti del Paese asiatico.
Gli analisti del Nikkei Asia hanno stimato in sette milioni di tonnellate il totale complessivo di carbone stipato sulle navi in attesa di entrare in Cina. Ufficialmente il governo di Pechino parla di un rallentamento dovuto all’esigenza di “maggiori controlli” sia sulla sicurezza e sia sulla qualità del carbone stesso. Impossibile non vedere un nesso con la guerra commerciale in atto. E tra protocolli anti Covid e controlli di varia natura, anche le due navi italiane rimangono in rada. Con diverse famiglie nel nostro Paese che contano i giorni sul calendario in attesa di buone notizie.
Italia incapace di garantire la sicurezza
Cambiano gli scenari, ma il discorso è sempre lo stesso: lì dove ci sono delicate beghe internazionali, spesso sono gli italiani ad essere posti in mezzo. E spesso, soprattutto, chi rimane coinvolto è estraneo alle vicende. Il caso dei marinai bloccati in Cina è uscito allo scoperto dopo il clamore, per la verità non così grande per come ci si aspetta in contesti del genere, suscitato dai due pescherecci di Mazara del Vallo sequestrati in Libia. Il punto in comune ai due episodi è rappresentato dal fatto che gente andata in mare per svolgere il proprio lavoro, è costretta a rimanere lontana da casa per motivi che nulla hanno a che vedere con la sfera dei propri interessi. I marinai fermati dinnanzi le acque libiche il primo settembre scorso sono ancora a Bengasi per i ricatti posti in essere dal generale Haftar. Quelli invece ancorati nelle baie cinesi sono finiti al centro di schermaglie tra Pechino e Canberra.
Innocenti quindi a cui il nostro Paese fatica a garantire sicurezza. È vero che istituzioni militari, quali la Guardia Costiera, oppure molti rappresentanti diplomatici da mesi sono a lavoro. Ed è vero che si sta facendo il possibile per farli tornare a casa. Ma qui il problema è di natura politica. L’Italia ha sempre meno peso. Di conseguenza i suoi cittadini all’estero sono potenzialmente più vulnerabili. In tal modo, ogni anno si devono registrare episodi in cui poi si è costretti ad attendere mesi per assistere a positive risoluzioni delle varie vicende. I casi dei marinai bloccati in Libia e in Cina stanno costituendo precedenti pericolosi, oltre che poco dignitosi.