Dopo essere stato costantemente sulla cresta dell’onda dell’attenzione internazionale per almeno tre lustri, l’Iraq è da qualche tempo passato in secondo piano nel vasto pantheon di crisi che contraddistinguono questo sfortunato inizio del XXI secolo.

Parzialmente finita l’epopea bellica statunitense dal 2003 al 2011, con l’invasione, il cambio di regime, l’inglorioso – ancorché parziale – ritiro del contingente USA, l’accidentata transizione del Paese verso la democrazia, e, dopo un breve periodo di distrazione in cui il Medio Oriente è stato attraversato dalle cosiddette Primavere Arabe, l’Iraq era tornato prepotentemente ed inquietantemente alla ribalta con l’ascesa dello Stato Islamico nel 2014. Il tempestivo intervento dell’Iran con le milizie dell’IRGC e quello, successivo, della Coalizione anti-ISIS ha fortunatamente impedito il collasso completo del Paese risparmiandogli un futuro cupo sotto una delle più efferate forme di Islam politico che la storia ricordi, ed al cui confronto anche i Talebani sarebbero impalliditi.

Dopo la ripresa di Mosul, nel 2018 i riflettori sul Paese si sono lentamente spenti. Tuttavia, ciò non significa che i problemi dell’Iraq siano finiti o che questi non possano tornare in futuro ad agitare le acque della precaria regione che circonda la Mesopotamia.

L’Iraq per la sua posizione strategica, la sua disfunzionalità politica, e per il caleidoscopico crogiolo di tensioni etniche, religiose e nazionali che raccoglie, nonché per la magnitudo dell’opera di ricostruzione e riconciliazione nazionale che è chiamato ad affrontare, mantiene intatte tutte le potenzialità di destabilizzare nuovamente il Medio Oriente. In sintesi, con l’Iraq occorre fare esattamente il contrario di quanto è stato fatto con l’Afghanistan dopo il ritiro sovietico nel 1989; il Paese è, e deve restare, un osservato speciale.

Una politica occidentale che voglia chiamarsi lungimirante dovrebbe quindi attestarsi su un’impostazione di ampio respiro. In sostanza, una volta tanto, predisporsi a prevenire i problemi anziché affrontarli tardivamente a maldestramente quando sono già deflagrati. Lo potrebbe fare accompagnando discretamente il Paese nella transizione verso modelli di Governance più efficaci e che raggiungano tutta la popolazione del Paese, varando un sostegno concreto all’immane opera di ricostruzione materiale ed infrastrutturale e, infine, facilitando l’imponente opera di riconciliazione nazionale, senza la quale il destino del Paese resterà inevitabilmente segnato, in negativo.

È a dir poco illusorio che Stati Uniti, Unione Europea e gli altri grandi donatori internazionali abbiano in questo momento la voglia, la concentrazione, la lucidità e le risorse per avviare questo investimento nella stabilità, nella ricostruzione, nello sviluppo e nel progresso del Paese che, a tutti gli effetti, resta la culla della civiltà umana. De sedici mesi, la priorità del cosiddetto Global West, ovvero la triade NATO/UE/G7 e addentellati vari, è una sola, l’Ucraina; ed è lecito ritenere che lo sarà ancora a lungo.

L’Iraq dovrà cercare da solo la sua strada e, soprattutto, farlo altrove rispetto ai soliti circuiti.

Il Paese continua ad essere gravato da due vicini ingombranti, uno si staglia per migliaia di chilometri lungo il suo confine orientale, ovvero l’Iran; l’altro, invece, non è un vicino in senso geografico, ma continua ad interessarsi all’Iraq, si tratta ovviamente degli Stati Uniti d’America. Mentre il primo ha capillarmente incrementato la sua presenza nei più disparati gangli del potere iracheno, gli Stati Uniti – distratti da tante altre, forse troppe, questioni – operano essenzialmente una politica interdittiva nei confronti dell’Iran. Hanno poco da offrire all’Iraq ma si accontentano per il momento di ostacolare il “fraterno” abbraccio che Teheran intende estendergli in modo sempre più avvolgente.

In ogni caso, immaginare che Washington, o qualche casa regnante araba, possano stabilire il tipo di relazioni che l’Iraq dovrà avere in futuro con l’Iran, con il quale condivide migliaia di chilometri di frontiera e millenarie relazioni politiche, economiche, commerciali, culturali e religiose, sembrerebbe, a dir poco, presuntuoso.

Ogni anno 15 milioni di pellegrini sciiti, la stragrande maggioranza proveniente dall’Iran, si recano – in larga parte a piedi – nei santuari di Najaf e Karbala per le celebrazioni dell’Ashura. Si tratta di numeri e di connesse esigenze logistico-organizzative che fanno impallidire anche l’annuale pellegrinaggio alla Mecca. Nelle centinaia di km che percorrono, i pellegrini essi sono assistiti, rifocillati ed alloggiati gratuitamente dalla popolazione sciita dell’Iraq meridionale che, peraltro, vanta redditi miserrimi. Tutto ciò senza il minimo incidente. Si tratta di legami difficili da recidere.

Sarebbe quindi opportuno, ma soprattutto saggio, lasciar decidere agli iracheni il tipo di relazioni che vorranno instaurare con l’Iran.  Qualsiasi interferenza non farà altro che mettere in difficoltà proprio quegli iracheni, e sono tanti, anche tra gli sciiti, che vogliono in parte sottrarsi al, potenzialmente soffocante, abbraccio di Teheran.

Tuttavia, la rapida evoluzione delle dinamiche globali e di quelle regionali potrebbe ampliare le prospettive irachene.

Il sistema internazionale sta subendo un cambiamento paradigmatico. Dopo un trentennio di leadership unipolare occidentale a guida americana, il cosiddetto “ordine mondiale basato sulle regole”, quest’ultime comunque dettate e, laddove necessario, interpretate esclusivamente da Washington, ci si sta lentamente spostando verso un ancora indefinito sistema multipolare che ha finora un unico punto di convergenza: nessun paese – nella nuova competizione tra grandi potenze che si va profilando tra USA, Russia, Cina e UE, deve sentirsi vincolato ed obbligato ad aderire alla peculiare visione del mondo portata da uno degli schieramenti contrapposti secondo la logica binaria, che si va parimenti riaffermando, del “o con me o contro di me”.

Il cosiddetto Global Rest, ovvero tutti gli altri Paesi al di fuori della triade Global West, un raggruppamento eterogeno, confuso e senza un’agenda precisa, vuole comunque restare ai margini di questo scontro. Quest’ultimo sembra l’unico aspetto che li accomuna.

Non fa eccezione il Medio Oriente, che, sempre maggior con maggior frequenza, sta rivolgendo il proprio sguardo verso l’Asia. Si tratta di una circostanza che apre ottime opportunità anche all’Iraq. La regione mediorientale sta recependo velocemente questo cambio di paradigma globale. Diversi paesi arabi, alcuni stretti alleati (almeno fino a qualche tempo fa) degli Stati Uniti, come Egitto, Arabia Saudita, ed Emirati Arabi Uniti, ambiscono ad entrare nel BRICS. Quest’ultimo è il gruppo di Paesi composto da Brasile, India, Russia, Cina e Sudafrica che si profila sempre più come l’autentico alter ego del G7.

Diversi produttori di gas e petrolio della regione stanno considerando concretamente la commercializzazione delle loro risorse energetiche con lo yuan cinese, abbandonando il dollaro.

La Cina sta intensificando le relazioni con il Consiglio di Cooperazione del Golfo ed ha appena conseguito un successo diplomatico – che ne ha rafforzato prestigio, autorevolezza e moral suasion – facilitando la ripresa dei rapporti tra Iran ed Arabia Saudita, una delle pietre angolari per la stabilità nell’area. L’Iraq – se gioca bene le sue carte, vara un minimo di riforme, e avvia una credibile riconciliazione nazionale – potrebbe beneficiare di un eventuale circolo virtuoso che la nuova stagione dei rapporti saudo-iraniani potrebbe generare. Un rilancio serio e duraturo dei rapporti economici tra i due giganti dell’area potrebbe avere un effetto moltiplicatore anche per le altre economie limitrofe, e l’Iraq dovrebbe figurarvi a pieno titolo, anche nella prospettiva dell’inevitabile diversificazione della sua economia che verrà imposta dal progressivo abbandono dei combustibili fossili.

In sintesi, una regione costantemente caratterizzata per decenni dalla cosiddetta Pax Americana, sembra ora orientarsi verso una sorta di Pax Economica Asiatica amministrata – discretamente, e sicuramente non muscolarmente come sono soliti fare gli USA – dalla Cina. Diversi Paesi dell’area potrebbero cogliere positivamente questa non banale differenza e per l’appunto l’Iraq figurare tra questi.

Da ultimo, il conflitto in Ucraina dovrebbe plausibilmente determinare il necessario riorientamento del grande progetto infrastrutturale ed economico cinese della Belt and Road Initiative, meglio noto come Nuova Via della seta. L’asse settentrionale di questo vasto progetto, ovvero la grande rete di corridoi infrastrutturali e commerciali terrestri che dovrebbero connettere Asia Orientale, Asia Centrale, Russia, Europa orientale ed occidentale sarà presumibilmente compromesso, non sappiamo ancora per quanto. Tale situazione conferirà inevitabilmente un maggior rilievo all’asse meridionale che dovrebbe transitare attraverso l’Asia Sud-Occidentale, ovvero il Medio Oriente, dove Pakistan, Iran, Iraq, Turchia potrebbero improvvisamente acquisire un’importanza assai superiore a quanto inizialmente immaginato.

Se si dovesse concretizzare tale ipotesi, per l’Iraq si tratterebbe di un’opportunità da non mancare.

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