Ha preso il via la terza fase di disimpegno dell’Iran dal Jcpoa, l’accordo sul programma nucleare, che prevede l’abbandono di “ogni limite alla ricerca e allo sviluppo”. A comunicarlo, come riferisce Adnkronos, è stato il ministro degli Esteri di Teheran Mohammad Javad Zarif in una lettera indirizzata all’alto rappresentante Ue per gli Affari Esteri Federica Mogherini.
Il portavoce del ministro Zarif, Abbas Mousavi, giustifica la decisione iraniana “come conseguenza del ritiro degli Stati Uniti dal Jcpoa, della reimposizione delle sanzioni statunitensi contro la Repubblica islamica e dell’incapacità di tre Paesi europei di rispettare gli impegni assunti nel quadro del Jcpoa, l’Iran interromperà tutti i suoi impegni presi nel quadro del Jcpoa nel campo della ricerca e dello sviluppo nucleari a partire dal 6 settembre”.
La fine del trattato Jcpoa
La decisione di Teheran sancisce praticamente la fine del trattato Jcpoa, fortemente voluto dall’amministrazione americana precedente e sottoscritto anche da Cina, Russia, Regno Unito, Francia, Germania. Dopo il ritiro di Washington dall’accordo avvenuto l’anno scorso e la reimposizione delle sanzioni internazionali, il regime degli Ayatollah ha intrapreso, per gradi, la strada che lo ha condotto alla decisione odierna che di fatto riporta la situazione allo status quo ante 2015.
La decisione è stata presa proprio in forza dello stesso trattato, come ricorda Mousavi, che prevede, al paragrafo 36, la cessazione dello stesso a seguito di 16 mesi continui di violazione da parte di una delle parti contraenti.
Già lo scorso maggio il presidente della Repubblica Islamica, Hassan Rouhani, aveva detto in un discorso alla televisione di Stato che se Francia, Germania, Regno Unito, Cina e Russia non si fossero attivate per cercare di proteggere il settore petrolifero e bancario dell’Iran dalle sanzioni emesse dagli Stati Uniti divenute effettive il 5 novembre del 2018, l’Iran sarebbe uscito parzialmente dal Jcpoa.
A luglio, allo scadere dei 60 giorni di tempo come da ultimatum reso noto durante il discorso di maggio di Rouhani, Teheran ha annunciato di voler l’attività di arricchimento dell’uranio, ma non in percentuale così alta da poterlo usare come esplosivo in una bomba atomica.
La recente decisione di “stracciare” il Jcpoa da parte iraniana è solamente la naturale conseguenza di più di un anno di immobilità da parte dei Paesi firmatari che non sono riusciti a far ritornare Washington sui suoi passi. L’accusa di Teheran all’Europa è proprio questa: non aver fatto nulla di concreto per impedire le sanzioni nel rispetto delle clausole del trattato.
Da parte dell’Ue arrivano i primi comunicati che esprimono preoccupazione per la decisione iraniana: la portavoce della Commissione europea, Maja Kocijancic ha dichiarato che “chiediamo all’Iran di tornare sui propri passi su tutte le attività che non sono in linea con i suoi impegni sotto il Jcpoa e di astenersi da ulteriori misure che minino l’applicazione dell’accordo nucleare” facendo sapere contestualmente che esiste una strada per cercare di aggirare le sanzioni Usa. “C’è un avanzamento e le prime transazioni sono in fase di processo. Ha richiesto tempo, ma sta andando avanti” ha detto la Kocijancic riferendosi ad Instex, il sistema di pagamento nato per cercare di continuare gli scambi economici tra Ue ed Iran escludendo le transazioni in dollari.
Di rimando l’Iran avrebbe concesso all’Ue un ulteriore periodo di 60 giorni per trovare soluzioni per sostenere le esportazioni petrolifere iraniane e l’accesso ai mercati internazionali generando un ulteriore inasprimento delle sanzioni da parte americana, non escludendo, però, la possibilità di appoggiare il piano di fornire a Teheran una linea di credito di 15 miliardi di dollari.
All’orizzonte un nuovo accordo?
Come abbiamo avuto modo di dire precedentemente, il trattato Jcpoa non poteva durare molto con la nuova amministrazione Usa. Innanzitutto non eliminava i possibili ordigni atomici già costruiti né eliminava il plutonio già sintetizzato ed inoltre, fattore affatto secondario, non andava ad intaccare il programma missilistico di Teheran se non in modo del tutto marginale e mai effettivamente ratificato per quanto riguarda i test.
Le posizioni della Casa Bianca, con Trump, sono mutate radicalmente e si allineano alla visione di Israele che parimenti ha sempre visto con sospetto, se non con apprensione, all’accordo Jcpoa proprio per le stesse motivazioni. Pertanto si è delineato un asse Tel Aviv- Washington di contrasto all’Iran se pur da punti di vista differenti: da un lato Israele ha assunto una linea più dura rispetto al passato, andando a colpire le posizioni iraniane ovunque esse siano nei Paesi mediorientali, dall’altro gli Stati Uniti, se pur fermi nella loro risolutezza vero il nucleare iraniano, sembrano avere una linea più morbida per cercare di spingere Teheran ad un nuovo accordo anche giocando la carta dell’escalation militare nell’area del Golfo Persico.
Una posizione, quella americana, che sembra stia pagando: il segretario alla Difesa degli Stati Uniti Mark Esper ha dichiarato che l’Iran si sta avvicinando gradualmente alla possibilità di tenere nuovi colloqui. Washington, come riferisce l’Agi, ha proposto all’Iran di tenere un incontro tra i presidenti Donald Trump e Hassan Rohani a margine della 74esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite il prossimo 25 settembre.
Durante una conferenza stampa alla Casa Bianca, Trump ha risposto in modo positivo alla domanda su un incontro con Rohani affermando che “tutto è possibile”, come riportato da Agenzia Nova oggi.
La strategia americana di innalzare il livello dello scontro con l’Iran, quello che abbiamo chiamato la “carta coreana” per le sue analogie con la strategia messa in atto durante la recente crisi con la Corea del Nord che ha portato Pyongyang al tavolo delle trattative, sembra dare i frutti sperati: ora un nuovo accordo che prevederà l’eliminazione del potenziale nucleare e missilistico a raggio medio e intermedio dell’Iran sembra delinearsi all’orizzonte.
L’incognita, in questa strategia, è rappresentata da Israele: il governo di Netanyahu, che dovrà confrontarsi il 17 settembre con la seconda tornata elettorale per eleggere i rappresentati alla Knesset, potrebbe scegliere di avversare questa eventualità per mera propaganda elettorale essendo stato messo in discussione per la linea “troppo molle” tenuta nella gestione della sicurezza dei confini nord del Paese, quelli col Libano e con la Siria, Paesi dove la presenza militare iraniana si va via via sempre più attiva.