Fanno certamente impressione le immagini dell’uccisione di Hevrin Khalaf, l’attivista curda vittima di un agguato delle milizie Fsa sostenute dalla Turchia ed entrate in territorio siriano nella giornata di venerdì. Quei video, diffusi sul web, in cui si mostra tutto l’orrore verso una donna già da tempi nel mirino dei jihadisti, fanno ben capire a quali bassezze si è caduti durante il conflitto in Siria. Ma purtroppo, il crimine perpetuato contro Hevrin Khalaf non è l’unico di questi anni nel paese arabo e non è difficile immaginare che non sia l’ultimo. L’attacco contro i curdi e l’esecuzione di una delle donne simbolo dell’attivismo politico curdo, ha fatto in qualche modo destare le coscienze. C’è però da chiedersi come mai, soltanto dopo otto anni di continui crimini e massacri compiuti durante il conflitto siriano, le coscienze dell’Europa stanno iniziando ad avere un rigurgito di umanità. E come mai, nonostante questo, dal vecchio continente ad uscire fuori è soltanto ipocrisia ed inconcludenza nella marginale azione politica.

Ci si accorge solo adesso della crudeltà della guerra in Siria

Impossibile non scuotersi davanti ai video di una giovane donna lapidata ed uccisa senza alcuna pietà e solo perché ha portato avanti fino alla fine il suo impegno politico. Ma, per l’appunto, questa scossa è arrivata troppo tardi e dopo tante altre Hevrin Khalaf uccise in Siria dal 2011 in poi. Troppo tardi, in primis, perché la divisa indossata da chi inveisce sul corpo della donna curda nel video dell’orrore porta lo stesso stemma per anni giudicato in occidente come il simbolo dell’esercito libero siriano. Quelle tre stelle rosse nella riga bianca della bandiera che riecheggia la Siria pre Assad, utilizzata per identificare l’esercito anti Assad nato all’inizio della guerra civile, è da anni un miscuglio di sigle jihadiste ed islamiste capaci di macchiarsi di ogni genere di crimine contro l’umanità e contro il senso di umanità.

Per anni questi soggetti sono stati chiamati “ribelli” del Free Syrian Army (Fsa) e, ciò che appare più grave, sono stati armati e sostenuti. Da tutti, non solo dalla Turchia. Avevano la stessa divisa coloro che, nell’estate del 2012, non hanno esitato a gettare razzi e bombe artigianali contro uno degli ospedali più importanti di Aleppo: era l’ospedale Al Kindi, un vanto del sistema sanitario siriano, una struttura specializzata contro i tumori dove si curavano persone provenienti anche dal Libano e dalla Giordania. Nel silenzio di un occidente distratto, nella migliore delle ipotesi, ma comunque ipocrita nella sostanza, jihadisti ceceni, siriani e di altre nazionalità con quella divisa addosso hanno bersagliato l’ospedale in quanto struttura strategica militarmente per prendere il nord di Aleppo. E quando sono riusciti ad entrare dentro quel che rimaneva dell’ospedale, hanno sommariamente ucciso i soldati presenti al suo interno.

Ed avevano fama di essere moderati ribelli dell’Fsa anche coloro che, nei quartieri di Damasco sfuggiti dal controllo del governo di Assad, per mesi hanno rinchiuso civili dentro le gabbie solo perché sciiti o sostenitori di altre forze. Venivano fatti sfilare per quei quartieri, poi messi sui tetti dei palazzi per usarli come scudi umani. Ed anche in quel caso, silenzio assoluto da parte dell’occidente. Chissà quante Hevrin Kalaf erano dentro quelle gabbie, quante donne, quante madri o quanti mariti hanno subito questo triste destino. C’è da indignarsi quando saltano fuori video degli orrori compiuti oggi da gentaglia jihadista con addosso la divisa dell’Fsa, ma non c’è purtroppo da sorprendersi: è da anni che la spirale dell’orrore in Siria è ben presente ed evidente.

La questione delle sanzioni

L’Europa nel contesto siriano ben ha dimostrato, ancora una volta, la sua totale marginalità sui dossier internazionali più delicati. A rimarcarlo è stato nei giorni scorsi anche il presidente Mattarella, che ha parlato di un’Unione Europea incapace di avere forti posizioni sulla Siria e non solo. Ed il capo dello Stato non ha tutti i torti, anzi: in queste ore a decidere le sorti delle ultime battaglie sono trattative che vedono impegnati russi, americani, turchi, forse anche cinesi, ma nessun paese europeo. Eppure l’Ue qualcosa può fare. Non soltanto con scelte simboliche, come ad esempio l’embargo delle armi alla Turchia. La Germania ha scelto di fermare la vendita di armamenti ad Ankara, a breve anche l’Italia si dovrebbe accodare. Ma è solo una presa di posizione simbolica, che a livello concreto fa il solletico ad una Turchia il cui esercito per dimensioni è secondo solo a quello degli Usa nella Nato. Anzi, occorre stare attenti che Erdogan, ancora una volta, non minacci contromosse in quel caso sì di un certo peso: i telai degli F35 che l’Italia sta acquistando dagli Usa, ad esempio, vengono prodotti in Turchia.

Eppure l’Europa può ancora effettuare una scelta di natura politica, che può avere un certo peso nel contesto siriano: il riferimento è alle sanzioni economiche. Si parla di sofferenze del popolo curdo, di una popolazione ridotta allo stremo a causa della guerra, negli anni a contribuire a tutto questo un ruolo importante lo hanno avuto le sanzioni imposte dall’Ue. Niente esportazioni, niente vendita di petrolio e di altre materie prime, oltre a congelamento di beni e blocco di transazioni: si tratta di misure che hanno strozzato l’economia siriana, le cui conseguenze ogni giorno vengono patite da quella stessa popolazione che oggi deve sorbirsi le bombe turche. Sanzioni che, peraltro, non hanno più alcuna motivazione politica a loro supporto: quando l’Ue ogni anno puntualmente le rinnova (a maggio sono state prorogate al 1 giugno 2020), parla della necessità di attuarle per via della repressione attuata da Assad verso il suo popolo.

Che il presidente siriano abbia le sue colpe e le sue responsabilità, non ci sono dubbi. Ma è pur vero che ha vinto la guerra ed il suo governo è l’unico che può evitare una balcanizzazione del paese, oltre al fatto che, volenti o nolenti, occorre riconoscere che Assad ha il sostegno di gran parte della popolazione. Baste vedere le immagini di queste ore, con la popolazione che accoglie le truppe siriane che entrano nelle città lasciate dall’Sdf con cortei di festa. Le sanzioni poi, non hanno scalfito né Assad e né gli uomini a sé più vicini ma hanno creato ulteriori danni alle famiglie siriane. Anche a causa delle sanzioni, nel paese non è stato possibile avviare ancora la ricostruzione, circostanza questa che fa aumentare il rischio di altre destabilizzazioni. Senza contare inoltre, che le sanzioni hanno causato un problema anche all’Italia, che prima della guerra era il principale partner economico europeo della Siria, la visita di Napolitano a Damasco nel 2010 lo dimostra.

Piuttosto che discutere di “segnali” e gesti puramente simbolici, l’Europa già oggi può nel concreto dare seguito all’indignazione suscitata dai crimini nel Rojava togliendo le sanzioni. Sarebbe un piccolo riscatto, che potrebbe anche ridare al vecchio continente un po’ di credibilità dopo tanta marginalità.