Ha fatto gran rumore, negli ultimi giorni, la decisione del governo italiano di bloccare l’export di missili e bombe verso Emirati e Arabia Saudita, un provvedimento che ha revocato anche le licenze concesse dall’esecutivo Renzi per oltre dodicimila bombe della Rwm Italia che Riad utilizzava nello Yemen. Notizia accolta cum gaudio magno dall’opinione pubblica, come umanamente è giusto che sia. Se non fosse che il tasto dolente sia, di per sé, il ruolo di esportatore di armi che l’Italia ha e sul quale si potrebbe discutere a lungo. Perché se il provvedimento è anche una “punizione” all’Arabia Saudita di bin Salman, l’atteggiamento della politica italiana è alquanto incoerente. È incoerente, infatti, che il gesto arrivi a pochi giorni dall’incontro avvolto dal mistero tra il principe ereditario bin Salman e il ministro degli Esteri Di Maio. Lo stesso bin Salman protagonista di quei bombardamenti in Yemen che sterminano civili e dell’omicidio Kashoggi. E a rincarare la dose di incoerenza ci ha pensato anche l’ex premier Matteo Renzi, reo di un ruolo consultivo nel Future investment initiative, che ha elogiato l’Arabia Saudita come centro di un futuro “neo-rinascimento”.
La legge 185 del 1990
Proprio lo scorso anno la legge 185 del 1990 ha compiuto 30 anni: denominata “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” prevede che ogni anno i ministeri interessati, preparino una relazione da presentare al Parlamento entro fine marzo, in materia di importazione ed esportazione dei sistemi di armamento da e per l’Italia. La legge, inoltre, impedisce che armi italiane vengano vendute a Paesi in guerra e che violano i diritti umani. Confini sottilissimi che soprattutto fuori dall’Unione Europea e Nato si fanno sempre più flebili poiché, nell’attuale panorama geopolitico globale, è quanto mai complesso stabilire chi combatte contro chi e se lo fa “legalmente”. Così come è ancora più difficile comprendere se nel suo periplo per il Pianeta, un’arma verrà utilizzata per colpire un obiettivo civile o militare. Resta il fatto che gli ultimi cinque anni ancora una volta hanno acuito una tendenza problematica: se infatti già nei primi 25 anni di applicazione della 185/90 il 50,3% delle esportazioni aveva riguardato paesi non appartenenti all’UE o alla Nato, tale rapporto cresce ancora dal 2015 in poi e ben il 56% dei sistemi militari nostrani finisce in questo range. Un dato grave se si considera che le esportazioni di armamenti «devono essere conformi alla politica estera e di difesa dell’Italia».
A chi vendiamo armi?
Secondo il report diffuso da Rete Italiana per il Disarmo e Rete della Pace in occasione dei 30 anni della Legge 185/90, negli ultimi cinque anni complessivamente sono stati 90 i Paesi destinatari di esportazioni di materiale d’armamento italiano: in testa troviamo Kuwait e Qatar (per le maxi-commesse di aerei e navi) seguiti da vicino da Regno Unito e Germania (cooperazione Eurofighter) e ben più distanti Francia, Stati Uniti d’America e Spagna. Subito dietro, grazie ad una serie di generose licenze, altri Paesi come Pakistan, Egitto, Turchia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, a seguire Norvegia, Australia e Turkmenistan. Fra questi, va ricordato che vi è un Pakistan ripetutamente accusato di essere sponsor del terrorismo internazionale, un Egitto con il quale l’Italia affronta la complessa vicenda Regeni tra incoerenze ed una politica estera inesistente, e la Turchia, scheggia impazzita del gruppo NATO verso la quale si tollera tutto e il contrario di tutto.
Il caso saudita
Sorprende, dunque, tanto clamore per una decisione a metà. Venendo al sopracitato caso dell’Arabia Saudita, già nel 2017 il New York Times dimostrò che le bombe prodotte dall’azienda RWM, di proprietà tedesca ma con sede in Sardegna, erano state impiegate dal regime saudita nella guerra in Yemen, spesso contro civili. Ad aggravare la posizione internazionale saudita, l’affaire Khashoggi: dopo la morte del giornalista, diversi paesi europei, tra cui la Germania, sospesero la vendita di armi ai sauditi, a titolo di ritorsione. L’Italia no, nonostante l’Arabia Saudita non stesse combattendo per legittima difesa, e quindi al di fuori dei casi contemplati dalla legge 185.
Ma fatta la legge, scovato l’inganno: l’Italia ha continuato a fornire armi a Riad poiché dal punto di vista del diritto è molto complesso stabilire se la legislazione vigente permetta o meno le esportazioni di armi in un caso come questo. Il Movimento 5 Stelle all’epoca dei fatti criticato violentemente il Governo italiano per i suoi scambi con i sauditi: tuttavia, nel gennaio 2019, dal porto militare di La Spezia salpò la fregata della Marina militare Carlo Margottini, per un tour promozionale dell’industria bellica italiana nel Golfo Persico. La nave partecipò anche alla fiera delle armi negli Emirati Arabi Uniti e fece tappa in Arabia Saudita: anche quella volta, proprio come per la visita di Di Maio a bin Salman, l’evento non venne pubblicizzato in pompa magna per poi essere strombazzato a cose fatte, giorni dopo. Scavando ancora indietro nel tempo, nel novembre 2013, il ministro della Difesa Mario Mauro del governo Letta si inventò il “tour promozionale, militare, commerciale e umanitario” che portò alcune navi italiane scortate dalla portaerei Cavour per cinque mesi nei Paesi Arabi e a circumnavigare l’Africa sciorinando armi e sistemi militari come in un bazar: all’epoca dei fatti questi “negozi galleggianti” scatenarono il pubblico ludibrio del Movimento.
A conti fatti, dunque, non v’è governo italiano che non abbia avallato la vendita di armi ai Sauditi e, ancora oggi, Roma oscilla tra la flebile condanna umanitaria nei confronti di bin Salman (e della sua mistica tra dittatore e giovane riformatore) e il business as usual. Che ora farà a meno delle bombe, ma concederà forse armi ancora più “preziose”. Nel frattempo, almeno altri 88 paesi potranno continuare a bombardare a marchio italiano.