Sembra che la questione legata a Gerusalemme capitale non sia la sola a tenere banco nella politica di Israele. È entrata infatti ormai al centro dell’attenzione internazionale quella che è diventata a tutti gli effetti la “questione migranti” di Israele.

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60 giorni per lasciare Israele, altrimenti sarà prigione

Si tratta invero del futuro destino di circa 40mila africani, eritrei e sudanesi per la maggior parte, attualmente richiedenti asilo in Israele. Tuttavia sembrerebbe che la volontà del governo Netanyahu sia ben lungi dall’essere accomodante verso i nuovi arrivati. Riportava Bloomberg come l’autorità israeliana abbia da poco distribuito una notifica diretta ai richiedenti asilo. Nella missiva Tel Aviv dà quello che sembrerebbe un vero e proprio “out out” alla comunità africana.

Nello specifico i migranti hanno 60 giorni per lasciare il Paese, dietro un corrispettivo in denaro, si parla di 3.500$ a testa più il volo, altrimenti scatterebbe l’immediata incarcerazione. A complicare la vicenda sarebbe la natura “non specificata” dello Stato di destinazione finale dei richiedenti asilo. Il più papabile sembrerebbe il Rwanda, anche l’Uganda però si è detto disposto ad accollarsi i fuoriusciti di Israele. Sembrerebbe dunque non esserci un vero e proprio criterio nella scelta dei Paesi di destinazione. In pratica Tel Aviv ha scelto i primi che si sono detti a disposizione.

I migranti preferiscono la galera piuttosto che tornare in Africa

Difficile però pensare che ai 40mila africani possa andare bene così. Un’indagine condotta recentemente dal The Guardian ha dimostrato infatti come per la maggior parte dei richiedenti asilo “andare in prigione” in Israele sarebbe una scelta preferibile rispetto a quella di andare in un Paese non meglio identificato dell’Africa subsahariana. “Il Governo del Rwanda non rispetta i rifugiati”, questo quanto viene scritto sulle pagine del quotidiano anglosassone. In realtà il problema dell’immigrazione africana in Israele non è nuovo.

Già nel lontano 2015 infatti sulle pagine del Times of Israel compariva una corposa analisi su come Tel Aviv, a differenza dell’Europa, volesse rimandare indietro i rifugiati e richiedenti asilo. “Continuo a combattere con tutte le mie forze contro il fenomeno dell’infiltrazione illegale, alla luce delle centinaia di migliaia di infiltrati che entrano in Europa in questi giorni. Non desisterò finché non troveremo una soluzione definitiva per rimuovere gli infiltrati da Israele”, questo è quanto dichiarava l’allora Ministro degli Interni israeliano Silvan Shalom. Una narrazione, quella degli “infiltrati”, che sembra continuare ancora oggi.

Gli israeliani che si oppongono a Netanyahu e una situazione potenzialmente esplosiva

È esaustivo a riguardo un recente editoriale uscito sul Jerusalem Post, in cui per l’appunto si descrive questa strategia di delegittimazione dei richiedenti asilo attuata dal Governo Netanyahu. “Sono stati classificati come infiltrati, opportunisti economici e criminali”, questo si legge sulle pagine del JP. È nello stesso giornale tuttavia che emerge come una consistente parte di israeliani sia decisamente contraria alla politica attuata dal Governo. “Israele è una nazione di rifugiati che il resto del mondo ha sistematicamente respinto, umiliato, cacciato, imprigionato, torturato e ucciso per millenni. Nel 1951 Israele è stata una tra le prime 145 nazioni a firmare Convenzione delle Nazioni Unite sui Rifugiati, che obbliga il Paese a rendere il processo di richiesta di asilo accessibile e umano per tutti coloro la cui vita è minacciata”. 

Questo l’incipit dell’editoriale del . Nel frattempo i richiedenti asilo soggiornano in vari campi di identificazione situati per lo più nel deserto del Negev. Si tratta comunque di un grattacapo non da poco per il Governo Netanyahu che già deve affrontare lo scontento dilagante della parte palestinese, sopratutto a seguito della riconoscimento americano di Gerusalemme capitale. In una situazione così esplosiva 40.000 richiedenti asilo pronti ad affollare le carceri di Israele non sono sicuramente la prospettiva ideale per avere una stabilità sociale. La situazione degli immigrati africani e della Palestina sono legate dunque con un filo diretto e il Governo Netanyahu ha ora il difficile compito di stabilizzare la situazione.