24.10.2022; questa è la data alla quale i posteri guarderanno per capire quando è cominciata ufficialmente l’era post-anglosassone dell’Impero britannico. Data coincidente con la vittoria di Rishi Sunak nella corsa a eliminazione per la leadership del Partito Conservatore britannico, che lo ha reso, sostituendo Liz Truss, il primo capo di governo di origine indiana della storia del Paese.

Più British che mai, ex banchiere di Goldman Sachs, una carriera nella City a cui è seguita una scalata fulminea ai vertici dei Tory, passata per la carica di Cancelliere dello Scacchiere nell’era del Covid e dell’edificazione della Global Britain, Sunak impone un mutamento strutturale. Ché Sunak, invero, non è altro che la personificazione del Regno Unito che cambia, o meglio che è già cambiato: post-anglosassone e multirazziale, ma non post-imperiale.

Indiano, sì, ma british

Il neo-premier nato a Southampton il 12 maggio del 1980 è figlio di genitori di etnia indiana, nati in Kenya e in Tanzania, trasferitisi nel Regno Unito negli anni Sessanta. Su tutti i fronti è un figlio, se non un nipote dell’Impero che fu, divenuto alfiere della Global Britain da lui pensata come centrata su Londra, nuova “Singapore sul Tamigi”, quale arrembante piazza finanziaria di riferimento mondiale.

Sunak è il primo premier nominato da Re Carlo III, un sovrano più complesso di quanto la vulgata lo rappresenta: colto, istruito più di ogni suo predecessore, primo Re a ricevere una formazione non militare ma politica, letteraria e sociale. Sovrano post-imperiale e post-coloniale per definizione, Carlo è nato nel 1948, un anno dopo la fine del dominio coloniale di Londra nel subcontinente, ed è ora il monarca sotto il cui trono il primo premier incaricato è una figura tanto simbolica.

Il pragmatico Sunak incarnerà il Regno Unito post-britannico? La nazione che ha visto l’Inghilterra affermare la Brexit come ultima epopea imperiale verso i popoli di casa conoscerà le sue stesse turbolenze nelle periferie interne? E come governerà il primo figlio dell’Impero salito al potere? Sunak sarà più globale che britannico nelle scelte sulla politica economica – non iperliberista, è però un liberoscambista convinto –, sull’identità – è assai meno oltranzista di molti colleghi di partito – e sulla politica estera? Che ne sarà della relazione speciale con Washington ora che Londra si è mostrata, innanzitutto, vulnerabile sul fronte interno? E che ne sarà del rapporto con l’India, ora che a guidare il Paese c’è un discendente dell’ex colonia? Tutte queste domande sono legittime.

La rivalsa della periferia sul centro

La storia, si sa, ama farsi beffe dell’Uomo. Il 24 ottobre, mentre gli induisti e i gianisti di tutto il mondo erano impegnati a celebrare il Diwali – una delle più importanti festività dell’indoverso, momento di giubilo in cui i fedeli ricordano che il Bene vince sempre sul Male –, a Londra accadeva qualcosa di epocale: un indiano naturalizzato britannico, Rishi Sunak, diventava primo ministro. Coincidenza, oppure destino, a seconda dei punti di vista.

Si parlava di un governo Sunak da mesi, sin dai tempi della crisi di BoJo, perciò non si è davanti a quello che solitamente si definirebbe un fulmine a cielo sereno. Ma ciò non toglie nulla alla memorabilità dell’evento. Primo ministro di origini indiane. Emblema dell’ingresso del Regno Unito in una nuova era, peraltro irreversibile – poiché la demografia è destino –, dai caratteri post-anglosassoni e multirazziali. L’avveramento della profezia di Macaulay.

Sunak non è meno british di chi lo è di nascita, e il suo curriculum è autoesplicativo a tal proposito, ma innegabile è che rappresenti, allo stesso tempo, la rivalsa delle periferie sul centro e il simbolo di una nuova nazione, multinazionale, protagonizzata dall’assertività e dall’attivismo dei figli delle ex colonie e, sebbene impercettibile, dal pervasivo e influente lobbismo dei membri del Commonwealth.

La scalata di Sunak è avvenuta alla luce del Sole, si scriveva, e questo si ricollega direttamente al discorso del crescente potere di condizionamento delle periferie (e della loro prole) nelle dinamiche interne della scombussolata metropoli. Una scalata ampiamente pronosticata perché accompagnata da trame e sabotaggi alle spalle di BoJo, della cui caduta Sunak è stato l’artefice – innescando la crisi governativa di luglio – e che mai sarebbe stata possibile se il “partito delle minoranze” di Downing Street, capeggiato dai pakistani Sajid Javid e Saqib Bhatti, l’iraqeno Nadhim Zahawi e le indiane Priti Patel e Suella Braverman, non l’avesse supportata e popolarizzata. Trame e sabotaggi successivamente riorientati a danno di Liz Truss, anch’ella boicottata domesticamente dalle primule rosse del partito indiano – in particolare il ministro Braverman – e, a livello esterno, messa in ulteriore affanno da un curioso braccio di ferro con Nuova Delhi.

Uomo di Londra o uomo di Nuova Delhi?

Tre sono le possibili ragioni alla base dell’impetuosa arrampicata di Sunak, il primo ministro britannico venuto dal Gioiello della corona, alla luce di quanto avvenuto nel dietro le quinte di Downing Street.

La prima ha il taglio meno dietrologico: Sunak ha intuito le potenzialità del partito delle minoranze, sempre più numeroso e influente, sfruttandole a proprio vantaggio per sferrare i colpi di grazia agli impopolari rivali. La rivincita (genuina e priva di malizia) del Commonwealth su Londra.

La seconda e la terza sono simili eppure differenti: l’ascesa di Sunak come parte di un disegno intelligente sceneggiato da menti raffinate con base in Inghilterra, e perciò stabilizzativo, oppure in India, e dunque in potenza preoccupante.

Il primo caso. Si potrebbe trattare di un tentativo, originatosi nelle stanze dei bottoni, di riportare la quiete nella tormentata Britaly in modo tale da permetterle di inseguire il sogno post-brexitiano della Global Britain, il cui coronamento passa inevitabilmente dal suggellamento di una special relationship con l’India – missione fallita da BoJo, persa in partenza dalla Truss e che soltanto un uomo come Sunak, parto autentico del Gange, avrebbe concrete possibilità di portare a compimento. L’ingresso di Londra nell’età post-anglosassone in funzione propedeutica ad un ritorno imperiale.

Il secondo caso. Si sarebbe davanti a un fenomeno eccezionale: la trasformazione di Nuova Delhi in un giocatore determinante per gli equilibri interni britannici. Giocatore in grado di consolidarli o spezzarli, a seconda dell’interesse e della contingenza, con l’aiuto della sua progenie inserita nei posti-chiave di economia e politica. La metropoli ostaggio della (fu) periferia.

Al di là di quanto durerà effettivamente il mandato di Sunak, la trama che ne ha permesso il successo non passerà alla storia come un episodio estemporaneo, ma come un evento spartiacque – spartiacque tra due ere. Ci saranno un prima e un dopo Sunak. Con il dopo-Sunak coincidente ad un Regno Unito pienamente consapevole della sua multirazzialità e della progressiva erosione della stessa idea di britannicità. La domanda è se e quanto questa trasformazione avrà ripercussioni significative sul piano internazionale e, soprattutto, a beneficio di chi.

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