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Il dado è tratto. Come da programma, il rituale laico dell’insediamento presidenziale, il più surreale e blindato della storia americana, si è compiuto: adesso, ufficialmente, Joe Biden è il 46esimo presidente degli Stati Uniti d’America e Kamala Harris sua vicepresidente.

Di pronostici sulle future scelte dell’amministrazione Biden ne sono stati sciorinati molteplici: ritorno dell’approccio multilateralista, dialogo con la Cina, ambiente, l’America latina e l’europeismo. L’unica cosa che sappiamo di certo sono gli impegni presi per i primi 100 giorni nei quali il presidente promette una lotta senza quartiere alla pandemia, il rientro nell’Accordo di Parigi, e numerose svolte in materia di immigrazione, welfare e stimoli economici.

Pur essendo una componente tradizionale e lirica della cerimonia d’insediamento, linaugural address, ovvero il discorso con cui il presidente si presenta alla Nazione, solitamente è lo strumento per comunicare la rotta dei futuri quattro anni. Analizziamone i tratti salienti.

Lo stile oratorio liberal

Il discorso del nuovo presidente si colloca perfettamente nello stile tipico dell’oratoria liberal, un sermone laico esortativo più che esplicativo di un programma. È con la parola democrazia che Biden ha aperto il suo saluto alla Nazione rimarcando l’obiettivo della causa democratica, la fragilità del sistema democratico che, tuttavia, sulle scale di Capitol Hill, oggi, sembra tornare a splendere. Un discorso patriottico ma non nazionalista che non scivola nell’attacco al suo predecessore ma che rispolvera il tono paternalistico, fraterno, che non è solo patrimonio dem ma che dal 1776 anima il discorso politico d’oltreoceano: lo testimonia il ringraziamento ai suoi predecessori presenti, molto differenti fra loro ma animati comunque dallo stesso humus storico.

We the people, tuona Biden citando la costituzione americana, rimarcando quell’”unione più perfetta” ricercata dai primi coloni e che sottolinea l’ideale di unione nell’era in cui tutti continuano a parlare di Stati Disuniti d’America. È proprio la parola unità, assieme alle sue articolazioni “unione”, “uniti”, “insieme”, che ricorre più spesso nel testo di Biden, un accorato appello nella fase più buia della storia americana e mondiale recente. L’unica parte utopica di un discorso che dell’utopia ha fatto saggiamente a meno all’insegna di un invito ad un nazionalismo civico che compia finalmente questa democrazia incompiuta.

Urgenza e avversari politici

Urgenza è l’altra parola che segna il giuramento di Biden. Urgenza intesa come grido di giustizia razziale, il primo esempio politico concreto che il neopresidente cita, a cui segue la causa ambientalista con il suo “appello alla sopravvivenza che viene dal Pianeta”. Due urgenze che assieme alla lotta alla pandemia avevano già segnato la campagna elettorale disegnando una sorta di dottrina Biden in nuce. Ma è soprattutto sulle divisioni sociali interne che il futuro inquilino della Casa Bianca stressa i toni: il terrorismo domestico, il suprematismo bianco, razzismo e paura vengono citati come mali americani e come sfide per il futuro.

C’è un richiamo profondo alla storia americana: la figura di Lincoln, che ritorna come padre nobile della Nazione, sottolineando il parallelismo con le grandi sfide interne che il presidente affrontò; il richiamo progressista alla speranza, quel “tornare forza leader nel mondo” in nome di quell’”ideale americano” refrain spesso abusato dalla politica a stelle e strisce, soprattutto all’estero. Ma c’è spazio anche per la guerra civile, citata più volte come fosco ricordo di anni di America contro America, la lotta per i diritti delle donne e Martin Luther King che proprio a pochi passi dai luoghi del giuramento pronunciò il suo “I have a dream”.

Gli appelli all’unità diventano strumento per veicolare messaggi agli avversari politici: “sarò presidente di tutti gli Americani”, “oggi siamo qui per festeggiare una causa non un candidato”, “chiedo agli americani di unirsi a me in questa causa” fanno da sfondo, ripetutamente, ai contrasti d’America che il presidente ripetutamente cita a suon di “We will”, altro tratto tipico della retorica presidenziale dove l’assunzione di un impegno viene sempre condivisa con il popolo attraverso un complesso meccanismo linguistico di collaborazione/deresponsabilizzazione.

Alleanze e fede

Sul finire del suo discorso, Biden per la prima volta cita, al di là delle generiche esortazioni sull’ “America come raggio di sole nel mondo”, la questione delle alleanze. In questo flebile accenno alla politica estera vi è solo spazio per l’impegno “non sulle cause di ieri” ma sugli obiettivi del futuro attraverso (e per farlo usa un gioco di parole kennediano) “non l’esempio del potere ma con il potere dell’esempio” sancendo, forse, l’inizio di un approccio meno guascone nelle relazioni internazionali.

Last but not least, c’è stata una forte impronta cattolica in questo insediamento e in questo testo. Non solo per via della presenza del reverendo Leo J.O’Donovan, sacerdote gesuita ex presidente della Georgetown University e intimo amico della famiglia Biden. Papa Francesco viene citato più volte e questo potrebbe far presagire una sorta di “asse” con il Vaticano in senso politico, umanitario e sulle questioni climatiche. Al netto delle numerose citazioni spirituali (Sant’Agostino o il biblico passo del “la gioia viene al mattino”) questa impronta è tutto tranne che casuale e negli Stati Uniti ha e avrà il suo peso politico.

Il consueto e paradossalmente laico “God bless America” consegna Biden alla storia. Ai posteri l’ardua sentenza.

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