La presenza di militari italiani a Misurata viene vista a Bengasi come atto ostile, il possibile consolato italiano a Bengasi viene visto da Tripoli come evento tale da far incrinare i rapporti con Roma. Comunque la si veda, la presenza italiana in Libia in questo momento non appare ben vista. Non è una buona notizia per il nostro governo ed il nostro paese, alle prese con la necessità di premere sull’acceleratore sul dossier libico sotto un profilo diplomatico, ma di fatto impelagato nel pantano che è diventata l’intera Libia.

Rinviata apertura del consolato a Bengasi

La nostra presenza nella città più importante della Cirenaica è da anni al centro delle cronache. Nel 2006 la diplomazia italiana vive con apprensione la giornata del 17 febbraio, quando il consolato italiano di Bengasi viene assaltato da manifestanti inviperiti dalle vignette su Maometto mostrare su Rai Uno dall’allora ministro Calderoli. La nostra sede diplomatica viene circondata ed assaltata, con saccheggi e devastazioni che creano un certo sconcerto in Italia ed in Libia. A seguito dell’avanzata dei gruppi jihadisti a Bengasi nel dopo Gheddafi, la città non viene più ritenuta sicura e dunque la nostra rappresentanza viene chiusa. La riapertura di un consolato italiano in Cirenaica viene vista come cartina di tornasole, nei mesi scorsi, della strategia di Roma sulla Libia.

Da paese che può già vantare la presenza di un’ambasciata a Tripoli, unico caso occidentale fino ad oggi, l’Italia avrebbe l’opportunità di porre operativa una sede diplomatica anche nell’est della Libia, a dimostrazione del dialogo avviato con Haftar. Ma oggi lo scenario è cambiato e dalla capitale libica fanno sapere che un’eventuale apertura del consolato a Bengasi verrebbe interpretato come “atto ostile”. Dunque da Roma il governo preferisce fermarsi. Per la verità la riapertura della nostra sede diplomatica è prevista già ad inizio anno, ma rinviata per motivi burocratici. Adesso però il rinvio appare “sine die”: l’esecutivo vuole prendere tempo dopo le richieste arrivate dal ministero degli esteri tripolino. Anche perché, spiegano fonti della Farnesina a La Stampa, in Cirenaica da giorni sarebbero in atto manifestazioni anti italiane. Lo scenario, in poche parole, si complica.

Italia tra due fuochi

La terzietà voluta di cui Conte parla dalla Cina, dove afferma “né con Al Sarraj e né con Haftar, ma con i libici”, se da un lato è la stessa che permette all’Italia nei mesi scorsi di aspirare al ruolo di guida della cabina di regia sulla Libia, a conflitto in corso sembra porre Roma tra due fuochi. Al Sarraj giudica ogni mossa verso Haftar come ostile, altrettanto fa il generale quando vede l’Italia mantenere i propri soldati a Misurata ed i propri rapporti con Tripoli. I libici non sembrano al momento fidarsi o, per meglio dire, chiedono all’Italia una decisa scelta di campo: essere terzi, per i principali protagonisti dello scacchiere libico, equivale ad una posizione “ibrida” mal digerita in un momento in cui entrambe le parti provano a scavalcare l’altra.

Dal canto suo da Roma, come detto, si preferisce prendere tempo. L’Italia già da mesi sembra accettare la possibilità di un Haftar a guida di un esercito unificato al culmine delle tappe del piano elaborato dalle Nazioni Unite. E dopo la chiamata di Trump al generale della Cirenaica, da Roma una soluzione del genere viene vista come inevitabile, prima o poi. Per questo si prova ad essere equidistanti e ad aspettare che il tempo (e la diplomazia) faccia la propria parte. Il problema però è che entrambe le fazioni libiche iniziano a spazientirsi: l’attesa viene interpretata come inattività del nostro paese e l’Italia, mentre osserva da un punto privilegiato la situazione diventare sempre più ingarbugliata giorno dopo giorno, rischia di rimanere con il tempo appoggiata alla finestra.

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