La lezione della Libia è una soltanto: ancora una volta sono le armi e le potenze che le utilizzano a decidere il destino di una crisi. E anche se saranno poi le cancellerie e le ambasciate a placare l’escalation (questo lo deciderà solo il futuro) è evidente che l’assalto a Tripoli del generale Khalifa Haftar ha stravolto la crisi e dato una netta direzione al conflitto. Incidendo sicuramente molto di più di piani, bozze e documenti decisi dalle organizzazioni internazionali.

La guerra in Libia è – come tanti altri conflitti dell’Africa e del Medio Oriente – una guerra per procura fra potenze formalmente alleate ma sostanzialmente rivali. Una sfida in cui è il gioco degli Stati a muovere i fili dell’escalation. E nessuna delle organizzazioni che avrebbero dovuto prevenirlo, è servita allo scopo.

L’Unione europea, che dovrebbe – almeno in teoria – parlare a una sola voce, brancola nel buio. Federica Mogherini ha provato a chiedere ai contendenti libici di fermare le violenze e intavolare trattative di pace. Ma è apparso chiaro sin da subito che il conflitto avesse tutti i connotati di una guerra che, come spiegato anche dal ministro dell’Interno libico a Gli Occhi della Guerra, può trasformarsi in uno scenario peggiore della guerra in Siria. E di certo quell’Ue che doveva essere la casa di tutti gli europei, l’organizzazione (o alleanza) in grado di dirimere tutti i conflitti, si è rivelata in realtà del tutto inutile quando si è trattato di regolare le controversie: in Libia in primis. Perché non solo la parola dell’Unione europea vale molto meno di quella dei leader internazionali, ma non esiste nemmeno una voce singola che rappresenti i reali interessi in gioco.

Stesso discorso vale per l’intera comunità internazionale, a partire dalle Nazioni Unite. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, riferendo al Senato sull’escalation militare di Tripoli, ha parlato dei problemi del sistema diplomatico con un passaggio che fa riflettere: “È palese del resto che, alla base di questa nuova crisi, vi sia anche la perdita di coesione della Comunità internazionale, che non sempre ha parlato con una voce unica nell’assicurare il proprio sostegno all’azione dell’Onu, come era invece riuscita a fare in occasione della Conferenza di Palermo”.

E, sempre per confermare l’importanza degli attori esterni nel conflitto libico, il premier ha ribadito che “questa crisi è frutto certamente di debolezze strutturali del contesto locale, ma anche di influenze esterne che non sempre sono andate nella direzione della stabilizzazione”. E in questo caso è del tutto evidente che, essendo i Paesi o membri delle Nazioni Unite, o della Nato o dell’Unione europea, qualcosa, in queste tre alleanze, è andato storto.

A parole, tutti considerano il piano Onu dell’inviato Ghassan Salamè come quello più valido. Nessuno contraddice la versione del Palazzo di Vetro. Ma dal momento che l’Onu è composta dagli Stati che combattono più o meno direttamente in Libia, fa sorridere l’idea che la crisi continui. È chiaro che i Paesi membri, in particolare le superpotenze, siano in disaccordo su quanto sta avvenendo in Libia. E la dimostrazione è arrivata dall’ultima (non) decisione del Consiglio di Sicurezza che ha bocciato la bozza di risoluzione del Regno Unito per la richiesta di un immediato cessate il fuoco. Dal momento che Gran Bretagna e Stati Uniti sono soliti fare asse, è del tutto evidente che i problemi sono stati legati soprattutto alle rimostranze francesi e probabilmente anche alla Russia, che vuole guidare la transizione al posto delle potenze atlantiche.

In ogni caso, il fallimento del negoziato ha mostrato, ancora una volta, che la diplomazia delle organizzazioni internazionali ha perso ancora una volta l’occasione di dimostrare che queste possono avere un peso politico nello scenario mondiale. Sono le potenze, medie o grandi, a decidere le sorti di una guerra. E sono gli sponsor di Sarraj e Haftar ad avere in mano la Libia. Non l’Europa (definitivamente messa in cantina) né l’Onu, il cui inviato, Salamè, è diventato anche oggetto delle proteste della popolazione di Tripoli.





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