Dall’altra parte del Mediterraneo si combatte silenziosamente una guerra per procura che rischia di incendiare l’intero Nord Africa. Dall’Egitto al Marocco, passando per la Libia, la Tunisia e l’Algeria, tutta la regione è coinvolta, in una misura o nell’altra, nel grande conflitto intra-sunnita che schiera Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto da una parte, Qatar e Turchia dall’altra. Migranti, armi, terrorismo, petrolio, gas: tutti questi elementi insieme formano una miscela esplosiva anche per l’Europa. E l’Italia, che la storia e la geografia hanno collocato al centro del “Mare Nostrum”, deve scegliere da che parte stare.

In Libia è in corso una proxy war stile Siria in scala ridotta e a bassa intensità. Il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica sostenuto dal Cairo e Abu Dhabi, ha annunciato il lancio della cosiddetta “ora zero”, che dovrebbe segnare l’offensiva finale per la conquista della capitale libica. Il feldmaresciallo libico ha prima parlato di una conquista nel giro di poche ore, poi ha corretto il tiro promettendo di arrivare alla piazza dei Martiri di Tripoli tra qualche giorno. Una strategia utilizzata anche nelle campagne militari a Bengasi e Derna, alla fine assoggettate al controllo dell’Esercito della Cirenaica. Tripoli, tuttavia, è un’altra storia: troppo vasto il tessuto urbano per una conquista-lampo, troppo numerose e agguerrite le milizie di Misurata intervenute per fermare l’avanzata di Haftar. Più il tempo passa, più la Libia corre verso la partizione. In realtà, la Libia è già di fatto divisa: la Cirenaica appannaggio di Egitto, Emirati, Francia e Russia; la Tripolitania sostenuta da Qatar, Turchia, Italia e Regno Unito; il Fezzan, con i suoi giacimenti, resta un territorio esposto alle scorribande dei gruppi armati e dei trafficanti.

In Tunisia la morte a 92 anni del presidente della Repubblica tunisina, Beji Caid Essebsi, apre numerose incognite a pochi mesi dalle consultazioni legislative e presidenziali che potrebbero cambiare radicalmente lo scenario politico e l’inquadramento internazionale del paese. Il carismatico politico di origine sarde ha letteralmente salvato la nazione dall’orlo del caos in cui era piombata durante il periodo della troika, il governo tripartito a trazione islamica che ha rischiato di dilapidare i risultati della “rivoluzione dei gelsomini” del 2011. La sua figura era riuscita a racchiudere sotto un unico partito, Nidaa Tounes, l’anima “laica” della Tunisia, un paese sì islamico ma dove le donne godo di ampi diritti e sono orgogliose delle loro libertà. Dopo l’exploit del 2014, tuttavia, Nidaa Tounes ha iniziato un lento logoramento interno che ha portato alla scissione del partito in diverse correnti e, di conseguenza, alla dispersione del consenso. Essebsi ha avuto peraltro il merito di saper trovare una forma di dialogo e di collaborazione con Ennahda, il partito della Fratellanza musulmana divenuto nel frattempo la prima forza politica in parlamento, garantendo alla Tunisia una posizione internazionale equilibrata e rispettata. Il presidente è morto prima di apporre la firma alle importanti modifiche della legge elettorale. Si tratta di un passaggio cruciale per il futuro del paese. Gli emendamenti, infatti, escluderebbero dalla competizione il “populista” Nabil Karouim, proprietario dell’emittente televisiva “Nessma” favorito nei sondaggi, negando l’ingresso in parlamento del suo nuovo soggetto politico, Qalb Toun, e di un altro movimento di crescente popolarità come 3ich Tounsi.

L’Egitto del presidente Abdel Fatah al Sisi ha ritrovato stabilità politica ed economica, ma resta un paese vulnerabile alle infiltrazioni terroristiche e dove tecnicamente vige lo stato d’emergenza. Il governo può infatti intercettare e monitorare tutte le forme di comunicazione, imporre la censura e confiscare pubblicazioni, imporre un coprifuoco o ordinare la chiusura di esercizi commerciali, nonché designare aree per l’evacuazione, tutto il nome della lotta al terrorismo. Nonostante queste misure estreme, criticate dagli attivisti per i diritti umani, i gruppi islamici legati sia allo Stato islamico che ai Fratelli musulmani continuano a colpire duramente con attentati e attacchi alle forze di sicurezza. A causa della possibile minaccia terroristica, il dipartimento di Stato Usa ha emesso un avviso di viaggio ai cittadini statunitensi e alcune compagnie aeree, la British Airways e la Lufthansa, hanno sospeso temporaneamente i voli verso la capitale. L’Egitto si considera come un “gendarme” arabo a cavallo fra Africa e Medio Oriente, ma ad oggi resta un gigante dai piedi d’argilla fortemente dipendente dagli aiuti stranieri e in particolare di petrodollari forniti dalle monarchie del Golfo. In futuro, tuttavia, le cose potrebbero cambiare: le recenti scoperte di gas nel Mediterraneo orientale garantiranno all’Egitto le risorse necessarie non solo per alimentare la crescente popolazione in pieno boom demografico (tra pochi mesi il paese supererà i 100 milioni di abitanti), ma anche per rifornire metano in Europa accreditandosi come importante fonte alternativa di approvvigionamento energetico. Anche da qui nasce la competizione con la Turchia del “sultano” Recep Tayyip Erdogan, che dovrebbero ospitare il tracciato del gasdotto trans-anatolico, parte del cosiddetto Corridoio meridionale del gas che include anche il Tap, il progetto portare fino in Puglia il gas dell’Azerbaigian.

In Algeria la risposta dei militari a un possibile governo islamista potrebbe far ripiombare il paese nell’incubo del Decennio nero e della guerra civile. Uno scenario al momento lontano, ma che non può essere neanche escluso a priori. Il bubbone è esploso nel febbraio 2019, quando l’entourage che ha mantenuto al potere il presidente Abdelaziz Bouteflika – colpito da ictus nel 2013, da anni immobilizzato su una sedia a rotelle e costretto a parlare al microfono per farsi sentire dai pochi dignitari stranieri che riceveva – ha annunciato l’improponibile candidatura a un quinto mandato, provocando un’inevitabile ondata popolare di rabbia e indignazione. Da allora ogni venerdì e martedì migliaia di algerini scendono in piazza per gridare “Dégagé”, fuori tutti. Dopo l’uscita di scena di Bouteflika, dimessosi il 2 aprile, gli apparati militari hanno iniziato a mutilare il cosiddetto “Pouvoir”, il tentacolare sistema politico, economico e l’intelligence che ha governato il paese negli ultimi decenni. Ma i manifestanti continuano a scendere in piazza e la pazienza del capo di Stato maggiore, generale Ahmed Gaid Salah, nuovo uomo forte d’Algeria, potrebbe esaurirsi. Il paese è oggi intrappolato in un pericoloso limbo politico al di fuori del quadro costituzionale e la via d’uscita attraverso le elezioni potrebbe non essere così semplice, anzi. La situazione è ancora più allarmante se si considera che l’Algeria garantisce all’Italia circa il 30 per cento delle forniture estere di metano. Per il momento il gas algerino continua ad arrivare in Italia e, anzi, recentemente Eni ha prolungato fino al 2027 il contratto per l’acquisto di metano dall’algerina Sonatrach.

Il vicino Marocco sta cercando di mantenere una posizione di neutralità nel grande scontro che coinvolge i paesi del Golfo e la Turchia. Anzi, Rabat vorrebbe mediare tra il Qatar e le altre monarchie. Il Partito di Giustizia e Sviluppo (Pjd), al governo, è affiliato ai Fratelli musulmani, ma a prendere le decisioni più importanti è sempre re Mohamed VI: il potere è di fatto incentrato nelle mani del monarca. Tuttavia, i rapporti tra Rabat e l’Arabia Saudita sono ai minimi storici per una serie di motivi legati, ad esempio, al mancato sostegno marocchino alla guerra contro l’Iran e voto anti-marocchino dei sauditi sulla questione della Coppa del Mondo del 2026. Dall’arrivo di Mohamed Bin Salman, ancora principe ereditario ma già uomo forte del regime saudita, le relazioni marocchine-saudite hanno visto un sensibile peggioramento. Le prossime elezioni in Marocco si svolgeranno nel 2021, ma la battaglia per evitare che il partito degli islamisti possa vincere di nuovo è già iniziata: un progetto di riforma al vaglio dei deputati prevede la possibilità di nominare un capo di governo non più dal primo partito, ma dalla coalizione uscita vittoria dalle elezioni. Un’eventualità che penalizzerebbe quindi Pjd, in favore del fronte “laico”. Tutto questo mentre il paese è sempre più esposto alle pressioni migratorie dopo la “chiusura” della rotta del Mediterraneo centrale.

Unendo tutti questi focolai di tensione, infine, appare chiaro come l’intero Nord Africa stia attraversando una fase di forte instabilità. L’esito della “guerra” per il controllo del Mediterraneo meridionale è ancora incerto, ma le conseguenze di questo conflitto potrebbero essere molto gravi per l’Europa e l’Italia.