Sette, i mesi passati senza un presidente della Repubblica; cinque, quelli trascorsi da quando si è smesso di provare ad eleggerne uno. Dodici, quelli passati senza un governo effettivo. 200%, il valore dell’inflazione rispetto all’inizio della crisi finanziaria nel 2019; 98%, la perdita di valore della lira libanese rispetto al dollaro americano nello stesso periodo. Tre miliardi di dollari, lo stanziamento che il Fondo monetario internazionale è pronto a sbloccare in cambio di riforme politiche ed economiche.
Lo stallo libanese è un buco nero che risucchia le speranze della popolazione, condannata a subire l’immobilità e la povertà create da questo doppio vuoto istituzionale proprio nel momento in cui è massima la necessità di decisioni prese velocemente e implementate efficacemente. Da quando il mandato del presidente Michel Aoun è scaduto nell’ottobre 2022, la mancanza di una nomina presidenziale non ha lasciato possibilità di formare un governo, ma negli ultimi mesi, la candidatura di Suleiman Frangieh – il nome sostenuto da Hezbollah – ha guadagnato popolarità, e potrebbe trainare la politica del Paese dei cedri fuori dall’impasse.
L’urgenza di una soluzione
Nella dichiarazione firmata a Jeddah alla conclusione del 32esimo summit della Lega Araba, i Paesi dell’area hanno chiesto con urgenza a tutte le parti politiche libanesi di “dialogare per eleggere un presidente della Repubblica che soddisfi le aspirazioni della popolazione libanese”, che possa assicurare il regolare funzionamento delle istituzioni dello Stato e che sia in grado di attuare delle politiche efficaci per affrontare la drammatica crisi economica che affligge il Paese. Il Paese dei cedri sta infatti attraversando una delle peggiori depressioni economiche dell’era moderna, in cui l’esplosione del debito pubblico e l’iper-inflazione della moneta hanno causato una crisi sociale senza precedenti.
Nonostante i molteplici tentativi per eleggere un nuovo presidente (11 fumate nere in totale, l’ultimo tentativo è stato fatto lo scorso gennaio), nessun candidato è riuscito a riunire la maggioranza di due terzi del parlamento richiesta per insediarsi nell’ufficio presidenziale. Il processo di costruzione del consenso è complicato dall‘influenza di attori sia regionali che internazionali, che spesso giocano un ruolo decisivo nella politica di Beirut. Nel frattempo, la guida dell’attuale governo ad interim è stata affidata a Najib Mikati, politico di lunga carriera che però ora ha poteri molto limitati, insufficienti a prendere le decisioni necessarie ad affrontare la crisi economica e politica che immobilizza il Libano.
Un processo lungo e complicato
Il sistema semi presidenziale libanese è organizzato su basi confessionali, che in teoria dovrebbero favorire l’armonia tra le principali componenti del Paese (musulmani sciiti, sunniti e cristiani maroniti) ma in realtà amplificano e polarizzano le divisioni settarie. I partiti in Libano si creano e si dissolvono con facilità, e più che rappresentare una fazione ideologicamente schierata fungono da strumento politico per i leader delle comunità. Questo sistema fluido rende molto difficile mobilitare una maggioranza di due terzi a sostegno di un candidato.
Il presidente della Repubblica deve essere un cristiano maronita eletto da due terzi del parlamento, maggioranza che nessun partito è riuscito a raggiungere nelle elezioni del maggio 2022. Dei 128 seggi del parlamento, 62 sono stati conquistati dall’alleanza guidata da Hezbollah. Nei mesi di trattative che hanno seguito il voto, il partito filo-iraniano ha guadagnato anche le preferenze dei drusi del Partito socialista progressivo e di alcuni partiti minori e indipendenti, varcando così la linea della maggioranza. Tuttavia, la scadenza del mandato del presidente Aoun ha reso impossibile l’insediamento di un nuovo governo.
Da quando, all’inizio di marzo, l’alleanza guidata da Hezbollah ha reso pubblico il supporto per la candidatura alla presidenza del capo del movimento Marada (erede politico della milizia Marada) Suleiman Frangieh, intense trattative hanno coinvolto i maggiori attori domestici ma anche i loro sostenitori regionali e internazionali.
Gli interventi esteri dietro la candidatura di Frangieh
Da sempre il processo elettorale libanese risente di influssi esteri, sia regionali che globali. In seguito all’indebolimento dell’influenza siriana – dovuto all’instabilità causata da oltre dieci anni di guerra civile – le lungaggini dell’iter per eleggere il presidente sono peggiorate a causa dell’esigenza di un “consenso regionale”.
Dato che Frangieh è considerato politicamente vicino all governo di Damasco, l’Arabia Saudita e i partiti che Riyad supporta nella politica libanese si sono opposti alla sua candidatura. Più in generale, la maggior parte degli attori regionali e internazionali si sono opposti a quella che definiscono “influenza siriana in Libano”.

Tuttavia, a partire dal riavvicinamento di marzo tra l’Arabia Saudita e l’Iran da una parte, e la normalizzazione dei rapporti tra Siria e Arabia Saudita dell’inizio del mese, le probabilità che Frangieh riesca ad emergere come candidato che raccoglie consenso sono cresciute.
Parigi, ex potenza coloniale generalmente contrapposta all’influenza della Siria ed Hezbollah in Libano, ha recentemente invitato Jebran Bassil (parente dell’ex presidente Aoun e capo dell’influente partito nazionalista Movimento libero e patriottico) a supportare la candidatura di Frangieh, promettendogli in cambio il diritto di proporre un nome per la presidenza della Banca Centrale del Libano una volta concluso il mandato di Riad Salameh, che è indagato internazionalmente per corruzione.
In base all’agenzia libanese Naharnet, perfino l’Unione europea è intervenuta nell’iter, minacciando sanzioni contro i parlamentari che boicotteranno i procedimenti parlamentari per eleggere il presidente. Non sarebbe la prima volta che partiti minori e parlamentari indipendenti ricorrono a queste tecniche di contrattazione, che allungano ulteriormente il processo elettivo.
L’entusiasmo di Francia e Unione europea per la candidatura di Frangieh è attribuibile alla preoccupazione per gli interessi politici e finanziari che entrambi nutrono in Libano, messi a repentaglio dalla prolungata crisi politica, alla reputazione che Frangieh si è costruito come attore affidabile nonostante la vicinanza ad Hezbollah. Nonostante ciò le elezioni sono tutt’altro che decise, e parte del dissenso non sembra poter essere risolto a livello domestico. Per questo il premier Mikati si è appellato ai Paesi arabi per “aiutare il Libano ad instaurare un dialogo domestico” per formare un governo e salvare il Paese.