Donald Trump non solo “scarica” i curdi, ma dà una precisa indicazione su quali sono le pietre angolari della sua agenda estera. Sia per quanto riguarda la Siria che per quanto riguarda altre crisi che in tutto il pianeta coinvolgono (direttamente o indirettamente) gli Stati Uniti.
La serie di tweet con il cui il capo della Casa Bianca ha definito il suo piano per il ritiro dallo scenario siriano è un messaggio che racchiude quanto già detto in questi anni di presidenza Trump per descrivere l’idea di politica estera dell’attuale amministrazione americana. L’idea per cui Washington non sente la necessità di confermare il suo essere “guardiano” delle crisi di tutto il mondo, ma esclusivamente garante dei suoi stessi interessi nella maniera più rapida e incisiva possibile. Nessun coinvolgimento nella crisi se non per necessità. E soprattutto patti chiari con i suoi alleati prima ancora che con i nemici. Trump può scendere a patti con chiunque (come dimostrato con gli accordo con Kim Jong-un) ma allo stesso tempo può cancellare o escludere accordi con i suoi partner più consolidati. Tutto in base a interessi effettivi e presenti, non in base a eredità del passato che per la Casa Bianca sono fardelli da eliminare il prima possibile: siano esse alleanze o guerre.
Il via libera a Recep Tayyip Erdogan è solo una parte del problema: la punta dell’iceberg di un insieme di conti aperti che Trump vuole chiudere. Il primo è con la guerra in Siria, che vuole che sia terminata il prima possibile. La mossa del presidente Usa è figlia di un’antica promessa che, con l’avvicinarsi delle elezioni del 2020, diventa a questo punto un banco di prova: ritirarsi dalla guerra che, come spiegato da The Donald, vede i soldati americani coinvolti da diversi anni ma che, a suo dire, ha perso di significato. Nei suoi cinguettii, il leader americano ha fatto intendere che senza Stato islamico non ha più senso rimanere in Siria: perché il Califfato è stato “rapidamente sconfitto al 100%” ma anche perché, come spiegato dallo stesso presidente, l’Europa non voleva indietro i suoi foreign fighters.
Un monito all’Europa quindi: la stessa Europa su cui si sono abbattuti i dazi e che l’America sta scuotendo con richieste continue di finanziamenti, moniti strategici contro la Cina e l’Iran, imposizioni commerciali per sradicare la politica commerciale tedesca. E la guerra in Siria è un modo per colpire, ancora una volta, quell’Europa e quei partner europei che non hanno voluto sottostare alle richieste di Washington. E la dimostrazione è arrivata dal coro di proteste che si sono levate dal Vecchio continente, sia in sede Ue che dalle cancellerie dei singoli Stati membri.
Ma non c’è solo l’Europa a finire nel mirino di The Donald. Perché c’è una frase che più di tutte fa comprendere il senso di questo “ritiro” che, se avverrà, sarà frutto non solo di una mossa di natura politica, ma anche di una visione a medio e lungo termine che può cambiare sensibilmente la globalizzazione in chiave americana. Quella definizione del conflitto siriano come una delle “guerre senza fine, molte delle quali tribali” è un modo estremamente brusco per far capire a tutti i partner mediorientali e internazionali che gli Stati Uniti sono cambiati nell’approccio a qualsisia tipo di escalation. Una frase in maiuscolo: un monito verso il mondo. “Combatteremo dov’è il nostro vantaggio, e combatteremo solo per vincere”. Il che si traduce in una capacità operativa rapida, estremamente efficace ma soprattutto frutta di una scelta legata a motivi puramente economici e reali nell’immediato e nel concreto. Un dietrofront rispetto all’espansione dell’impero americano che nasce dalla volontà di evitare quello che per gli strateghi americani è da tempo il vero e proprio incubo: l’overstretching. La questione per Trump ha diverse sfaccettature. La guerra, specie in Medio Oriente, non ha senso se questo limita i suoi sforzi per comprimere gli impegni militari all’estero, trovare un accordo con l’Iran, concentrare i suoi sforzi verso la Cina (vero rivale strategico) e trovare un compromesso con le ambizioni israeliane, quelle russe e quelle dei partner arabi. Tutto questo, se unito alla volontà di evitare impegni che corrodono la sua idea di America First, implica che sia necessario un sacrificio che, a quanto pare, coinvolgerà i curdi.
Di certo non una novità per Trump né per gli Stati Uniti. Da quando la Casa Bianca è occupata da The Donald non è un mistero che alleanze, amicizie e inimicizie cambino velocemente come un cinguettio del presidente. Ma di sicuro c’è una linea che unisce tutti i puntini e il passato, il presente e il futuro del presidente degli Stati Uniti. La serie di tweet è solo l’ultimo esempio di quale sia la strategia: evitare il conflitto, scuotere gli alleati, fare in modo che i partner facciano la loro parte al posto degli Usa e, allo stesso tempo, dare un messaggio di imprevedibilità a una diplomazia ancorata su blocchi e sistemi che non sono affatto certi per Trump quanto per la sua amministrazione. Del resto il messaggio successivo al semaforo verde verso Erdogan è stato di una chiarezza cristallina: “Come ho già detto in precedenza, e solo per ribadire, se la Turchia fa qualcosa che io, nella mia grande e insuperata saggezza, considero off limits, distruggerò e cancellerò totalmente la sua economia (l’ho già fatto prima!)”. Una minaccia chiara.
In molti hanno definito questa mossa di Trump come un “regalo” a Vladimir Putin e Bashar al Assad. Difficile dirlo: l’ingresso della Turchia nel nord della Siria potrebbe anche scatenare l’ira di Damasco, che si vede una parte del proprio territorio occupata da forze nemiche. Così come non va sottovalutato il fatto che se da un lato Israele vedrebbe colpita in parte la strategia di Assad, dall’altro lato vede avanzare Erdogan e la sua leadership in Medio Oriente. Ma anche questo è Trump. Un continuo dinamismo teso a scolpire i soli ed esclusivi interessi della sua amministrazione. America (e Trump) First, prima di ogni cosa.