Lungi dal rendere più coesa l’Unione europea, il tormentato processo di avvicinamento alla Brexit, su cui pende ancora la spada di Damocle del reale perfezionamento, sta facendone venire a galla tutte le contraddizione e le faglie interne. La spiegazione? Follow the money.
L’uscita di Londra dell’Ue creerà infatti un buco nel bilancio settennale (2021-2027) che i governi e la Commissione stanno negoziando, e che dovrà essere colmato da interventi dei 27 Paesi rimanenti. I circa 14 miliardi di euro di mancati contributi britannici porteranno dunque un ammanco vicino ai 100 miliardi di euro nel bilancio comunitario, superiore ai mille miliardi di euro, un terzo dei quali destinati all’onerosa Politica agricola comune (Pac) e il resto suddivisi in diversi capitoli di spesa. Dai fondi di coesione al finanziamento dell’agenzia di controllo delle frontiere, passando per quelli che la commissione von der Leyen immagina essere i punti programmatici più importanti (svolta verde, digitale, tecnologia).
E nella corsa alla definizione delle nuove politiche di bilancio europee il governo, a parole, rigorosamente europeista di Angela Merkel si è messo a capo al fronte dei Paesi che hanno individuato nell’1% del prodotto interno lordo annuo dei membri dell’Unione la soglia massima di contribuzione al prossimo bilancio. La proposta riunisce attorno a Berlino i superfalchi dell’austerità, che nell’ultimo Consiglio europeo hanno trovato quella comunione di intenti recentemente dispersa: Austria e Olanda, infatti, concordano con il governo tedesco, seguite a ruota da Danimarca e Svezia. L’ex paladino numero uno dell’austerità, laFinlandia, ha proposto una contribuzione compresa tra ll’1,03% e l’1,08% (che garantirebbe un bilancio Ue di circa 1.050-1.100 miliardi), bocciata all’unanimità per il veto incrociato di chi chiede più contributi e chi, invece, rimane più cauto.
Emmanuel Macron e Giuseppe Conte hanno portato Francia e Italia a schierarsi per un bilancio più ampio e ambizioso, e il primo, intento in una vera e propria guerra di nervi coi poteri europei dopo lo schiaffo subito con la bocciatura di Sylvie Goulard, ha usato l’arma del veto contro i negoziati per l’accesso di Albania e Macedonia come strumento di pressione contro i fautori di un bilancio minimale.
La soglia attuale è dell’1,03% del Pil, che dopo l’addio di Londra dovrebbe salire all’1,16% per mantenere in atto l’attuale dotazione economica. Una soglia del genere appare pura utopia, così come lo è a maggior ragione l’1,3% (1.300 miliardi di euro di bilancio circa) richiesto dall’Europarlamento, il cui presidente David Sassoli ha recentemente avvertito del rischio di una paralisi in Europa. Tra la commissione tornata nuovamente sub judice e il bilancio su cui non si trova una quadra l’Unione torna a essere bloccata, paralizzata dai veti incrociati.
La Merkel, in particolare, è pronta a tornare nella trincea in cui si è asserragliata a lungo di fronte alla minaccia di un naufragio dei negoziati per la commissione a trazione franco-tedesca benedetta dalla maggioranza “Ursula”. A beneficio di chi dare contributi elevati, quando ancora non si sa se Ursula von der Leyen supererà o meno le forche caudine del Parlamento europeo? Alla Germania interessa rafforzare i poteri europei solo se ne controlla effettivamente i comandi di manovra: non si spiegherebbe altrimenti l’incoerenza tra i proclami europeisti e lo scarso rilancio sul bilancio. Per la Germania, inoltre, la Brexit si preannuncia una batosta economica e commerciale: forse a Berlino qualcuno ha pensato che i miliardi destinati al fondo comune europeo potrebbero essere più comodi come cuscinetto contro le minacce all’industria e alla produzione nazionale poste dall’uscita di Londra dall’Unione.