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“Abbiamo chiuso la questione per una generazione” dichiarò trionfalmente l’allora premier britannico David Cameron all’indomani del referendum per chiedere l’indipendenza scozzese, che si è tenuto il 18 settembre 2014. Grazie al sostegno di figure di primo piano del partito laburista, come l’ex premier Gordon Brown, scozzese di Glasgow, il No prevalse con il 55% dei consensi degli elettori. All’epoca prevalse il timore che una Scozia indipendente non avrebbe avuto un percorso agevolato per l’ingresso nell’Unione Europea e la preoccupazione nel perdere le pensioni britanniche. Secondo i dati del governo scozzese, inoltre, il 44,6% degli adulti in Scozia non paga tasse sul reddito, ergo vuol dire che i guadagni sono sotto le 12 mila 560 sterline. Segno che il sistema britannico del welfare sostiene moltissime persone con problemi di mantenimento.

Nel 2016 la vittoria della Brexit in un altro referendum ha cambiato le carte in tavola: la Scozia si ritrovava fuori dall’Unione Europea contro la sua volontà: il 63% degli scozzesi, infatti, scelse di rimanere con Bruxelles. Nel Parlamento di Edimburgo, intanto, il dominio del Partito Nazionale Scozzese, indipendentista di sinistra, non è calato. Dopo le elezioni del 2021 sono stati confermati in carica per la quarta volta consecutiva, con una coalizione con i verdi che ne condividono la linea indipendentista. Dopo l’uscita di Londra dall’Unione il 31 gennaio 2020, il clima a Bruxelles si è fatto molto più favorevole a un’eventuale ingresso di una Scozia come nuova nazione.

 

A Edimburgo avevano ascoltato: il 19 dicembre 2019 venne approvata una nuova legge che consentiva di indire referendum senza chiedere il permesso a Londra; quindi, superando l’opinione del governo di Boris Johnson secondo cui, come affermava il suo predecessore Cameron, la questione era chiusa per una generazione. Da parte scozzese però si ribatteva che le condizioni materiali erano molto cambiate e che l’addio a Bruxelles rimetteva tutto in gioco. Per dirla con la premier Nicola Sturgeon, il fatto che la Scozia “non vuole un governo di Boris Johnson, non vuole uscire dall’Unione Europea e vuole invece scegliere il proprio futuro” è una condizione sufficiente per riprovarci.

Il successo alle elezioni politiche del 2019, con 48 seggi scozzesi al Parlamento di Londra su 59 disponibili e la riconferma nel 2021, corrobora questa tesi. C’è anche da dire che questa contrapposizione ha prosciugato i consensi dei laburisti scozzesi in favore dei conservatori locali, legati a Londra, unionisti, ma meno conservatori dei loro colleghi inglesi. Quindi un unionismo di fondo nella società scozzese rimane sottotraccia, anche se diviso tra i partiti “inglesi”, conservatori, laburisti e liberaldemocratici. A fine 2020 però l’indipendentismo raggiunse livelli altissimi: secondo un sondaggio di Ipsos-Mori di ottobre 2020, i consensi al distacco definitivo dall’Inghilterra aveva raggiunto il 58%. Quindi in previsione delle elezioni del maggio 2021, il governo di Sturgeon preparò un piano in undici punti qualora alle elezioni di quell’anno gli indipendentisti avessero raggiunto la maggioranza: obiettivo poi centrato a maggio 2021, grazie a 8 parlamentari dei Verdi scozzesi e al loro programma autonomista che ha fatto sì che potessero entrare nel governo.

Per il ministro delle autonomie regionali Michael Gove, il piano di Edimburgo non ha alcuna chance di essere riconosciuto come valido da Londra. Non solo, ci sono altri problemi per la sua realizzazione: poco prima delle elezioni del 2021 l’ex premier Alex Salmond guidò una scissione creando l’Alba Party (Alba è il nome gaelico della Scozia), molto critico nei confronti della premier, accusata di usare la questione “solo per lamentarsi con Londra”. Ipotesi confermata anche dall’ex braccio destro di Boris Johnson Dominic Cummings, che in un suo recente libro ha scritto “che non ci sono reali intenzioni di tenere il referendum perché il fronte del sì non è sicuro di vincere”.

Lo scorso 14 giugno è stato presentato dalla premier Sturgeon il primo di una serie di studi dedicato a dimostrare che l’ipotesi indipendentista è l’opzione migliore di tutte. Un libro bianco che afferma che la Scozia indipendente sarebbe “più ricca, più equa, più giusta”. Comparandola con altre dieci nazioni europee, al momento Edimburgo è all’ultimo posto in vari indicatori. Se alcuni critici, come il quotidiano londinese The Times, indica che in realtà il paper non contenga proposte di rilievo e non sia null’altro che un appoggio propagandistico per la causa indipendentista. Possibile che lo sia, dato che il segretario alla Costituzione Angus Robertson ha dichiarato pubblicamente che è in programma un nuovo referendum nell’ottobre 2023, affermazione poi confermata dalla stessa premier scozzese con i crismi dell’ufficialità. Difficile che un nuovo leader a Downing Street cambi idea su questo. Possibile però che la campagna referendaria rafforzi la posizione del partito conservatore, chiunque possa essere il nuovo capo.

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