Quella di Joe Biden doveva essere solo una visita di tre ore. Una toccata e fuga nella sperduta Papua Nuova Guinea dall’alto significato simbolico. L’ex senatore del Delaware sarebbe stato il primo presidente americano a visitare la nazione nella sua storia. Il piano era semplice: toccare il suolo di Port Moresby, incontrare una delegazione dei 18 membri del Forum delle Isole del Pacifico e stringere accordi di sicurezza.

Un piccolo ma importante tassello della complessa strategia per l’Asia dell’amministrazione Biden. Tassello che alla fine è completamente saltato dal banco una volta che il presidente si è visto costretto a cancellare il viaggio. Alla fine una toppa è arrivata con la decisione di mandare comunque un esponente dell’amministrazione, il segretario di Stato Antony Blinken, ma l’inghippo diplomatico è destinato a riverberarsi in tutta la regione.

Le turbolenze in patria

Da mesi la Casa Bianca lavorava alla missione asiatica del presidente. Prima alla tappa al G7 di Hiroshima, in Giappone, poi scalo a Port Moresby e infine una puntata in Australia per la riunione del Quad. La scelta di ritornare a casa dopo aver visto gli altri sei grandi della terra si è resa necessaria per il rischio di una crisi del debito. Democratici, Repubblicani e Casa Bianca non sono ancora riusciti a trovare la quadra sull’innalzamento del tetto del debito che scongiurerebbe un pericoloso default. Il tempo scorre e una soluzione va trovata entro il 1 giugno, da qui la decisione di limitare la sortita al G7.

Il disappunto locale

Una scelta comprensibile, ma estremamente problematica per gli obiettivi americani nella regione. Il Washington Post ha raccolto gli umori dalla capitale della Papua Nuova Guinea e in molti non hanno nascosto delusione e amarezza. Per il Paese del Pacifico la visita di Biden rappresentava un’occasione preziosa per essere messi “sulla cartina”. Per tre ore una nazione da 10 milioni di abitanti sarebbe stata vista sotto una luce diversa, non solo come un Paese in preda alla violenza delle gang, ma come una realtà capace di giocare un ruolo chiave negli equilibri della regione. Non a caso i preparativi per accogliere l’inquilino della Casa Bianca andavano avanti da sei mesi.

Cosa prevedeva la visita

Come detto la visita prevedeva l’incontro con altri leader della regione del Pacifico, ma non solo. Sul tavolo c’erano accordi preziosi per gli Usa. Un’intesa in materia di sicurezza che avrebbe consentito alle forze americane maggiore accesso a porti e aeroporti della nazione, ma anche una maggiore collaborazione in materia di pattugliamenti marittimi. La Guardia Costiera americana avrebbe infatti collaborato con quella locale per tenere sotto controllo chilometri e chilometri di costa.

Alla fine l’accordo verrà siglato ugualmente, ma la lacerazione diplomatica resta, e questo perché rappresenta un segnale non solo per Papua Nuova Guinea, ma per l’intera Asia, Australia inclusa. Non va infatti dimenticato che Biden doveva volare a Canberra, incontrare il premier Anthony Albanese e tenere un discorso al Parlamento australiano (per la prima volta da oltre un decennio un presidente americano si sarebbe rivolto ai deputati australiani). Un’occasione preziosa per confermare il patto di sicurezza dell’Aukus che si collega alla fornitura di sottomarini a propulsione nucleare all’Australia.

Gli effetti dello stop

Gli effetti negativi di questa “cancellazione” vanno in direzioni diverse e sono tutti piuttosto gravi per Washington. Al di là degli accordi da firmare, la visita di Port Moresby serviva a dare un segnale forte in quel triangolo d’Asia dopo anni di abbandono americano. Doveva essere la conferma dello slogan di Biden “America is back”. E invece dall’esterno si vede ancora un Paese disfunzionale, in preda alle turbolenze interne e vittima della sindrome del 6 gennaio. Non solo. Il senso d’urgenza nel rientrare a Washington per mediare sul tetto del debito conferma la gravità della situazione e soprattutto i rischi sistemici nel caso in cui il negoziato si trascini per le prossime settimane.

Mihai Sora, ex diplomatico australiano e oggi ricercatore del Lowy Institute, non ha usato mezzi termini per descrivere quesa debacle: “Questa cancellazione verrà letta come una caduta degli Usa nei soliti schemi, mostrandoli non all’altezza delle aspettative. Sarà tutto materiale per i detrattori dell’influenza a stelle e strisce nella regione”.

Ancora più amara la riflessione di Zack Cooper, ex vice consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Bush: “Il problema vero è che Biden ha spesso affermato che le democrazie sono in grado di fornire risultati, che gli Usa possono fornire risultati. Nei fatti lo stop per problemi tutti interni è la dimostrazione che il presidente ha detto una cosa non vera”. Il riferimento di Cooper è proprio alla grande retorica del presidente intorno alla necessità di unire le democrazie contro l’avanzata degli autoritarismi. Una formula che sottende la battaglia contro la Cina e la sua politica di esportazione di un modello efficiente.

Il rischio, sostengono diversi analisti, è quello di mettere a repentaglio l’intera policy americana in Asia. Un rischio che avviene in un momento molto delicato sia delle relazioni tra Pechino e Washington, sia dell’intera Asia con la Repubblica popolare.

Il ruolo della Cina

Per capire il pasticcio americano basta guardare a quanto fatto dalla Cina proprio in Papua Nuova Guinea. Nel 2018 il presidente cinese Xi Jinping passò diversi giorni nel Paese in occasione dell’Asia-Pacific Economic Cooperation summit. Un confronto impietoso con il dietrofront americano. La mossa della Casa Bianca, quindi, solleva molte domande sul grado di impegno nella regione in un momento in cui sia Washington che Pechino sembrano spingere le nazioni più piccole a fare una scelta di campo.

La delusione di Port Moresby è, infatti, solo una parte della storia. La scelta di rientrare prima negli Usa fatta dall’amministrazione Biden può seminare dubbi e perplessità in molti Paesi della zona. Un’azione che renderebbe vani gli sforzi diplomatici degli ultimi anni, sforzi che comprendono l’apertura di nuove ambasciate, un vertice alla Casa Bianca tenuto nel settembre scorso e l’annuncio di un piano di aiuti che sfiora il miliardo di dollari.

Non è la prima volta che i presidenti americani dimezzano o interrompono viaggi in Asia. Nel 2013 era toccato a Barack Obama, costretto a rientrare per la chiusura del governo federale. Mentre qualche anno più tardi anche Donald Trump interruppe un viaggio. Ma a essere cambiato è lo scenario. Il mondo che si trova a navigare Biden è cambiato rapidamente negli ultimi quattro anni.

Per avere un’idea del danno basta vedere le mosse recenti proprio della Cina nella regione. Nel 2022 Pechino ha annunciato un’accordo prezioso con le Isole Salomone facendo scattare l’allarme in Australia (e negli Usa) per la possibilità che forze cinesi si installino in una base militare non lontano dalle coste australiane.

È chiaro che ora gli americani devono correre ai ripari e trovare una formula per ricucire. Ma non sarà facile. Non ci sono accordi da firmare, ma alleati da convincere. Il mito dell’infallibilità e dell’affidabilità americana resta appunto un mito, lontanissimo e sbiadito. E la concretezza delle visite di Xi e del modello cinese rimangono seducenti per molti nell’area.

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