Con un’elezione che ha mandato in tilt il sito ufficiale del partito, proprio al momento dell’annuncio del vincitore, il 4 Aprile il nuovo leader dei Laburisti inglesi, Sir Keir Starmer, ha fatto calare il sipario su Jeremy Corbyn e sull’era del Corbynismo.
L’avvocato 57enne di Londra è stato eletto in un momento in cui, probabilmente, la notizia non interessa quasi a nessuno e se per l’opposizione è sempre difficile guadagnare la scena in tempi di relativa normalità, in momenti eccezionali come questi, l’impresa è pressoché disperata.
E Corbyn? Lui, prima di congedarsi, nelle ultime settimane, tra interviste e dichiarazioni ce l’ha messa tutta per cercare di diffondere il suo sempre più flebile verbo nel Paese, ma la pandemia ha fagocitato tutto in un requiem che ne ha rimbalzato l’inefficacia.
Così, a poco sono valsi gli inascoltati sussulti di un leader che molti vorrebbero cancellato dai libri di storia mentre altri considerano il vero, grande paladino del socialismo che fu.
Ma cosa rimarrà veramente di Jeremy Corbyn e del Corbynismo?
L’eredità del leader mancato
Eletto nel 2015, durante il suo mandato Jeremy Corbyn è riuscito a perdere due campagne elettorali e ad essere messo sotto giudizio da un voto di sfiducia senza mai rassegnare le dimissioni e consegnando al suo successore, Keir Starmer, il partito più diviso e arrabbiato di sempre.
Jeremy Corbyn non ha mai dimostrato doti di leadership al punto da anteporre alla ricerca del potere, il tentativo ostinato di affermare la sua agenda politica. Questa “ossessione ideologica” lo ha portato ad essere fortemente amato dall’ala più a sinistra dei laburisti che lo ha sorretto come l’illuminata icona del socialismo anni ’70, ormai pressoché cancellato dalle mappe geopolitiche. I suoi sostenitori hanno sposato incondizionatamente la sua volontà di ridare al Labour la sua anima profonda esprimendone la vera identità.
Per contro, naturalmente, la sua lotta così determinata e antistorica gli è valsa fortissime critiche generando malcontento in un partito che non è mai stato così spaccato.
Numeri alla mano, l’epoca politica che porta la sua firma ha consegnato le ultime due, di quattro sconfitte elettorali consecutive culminate nel 2019, anno in cui i laburisti hanno incassato il peggior risultato dal 1935.
Sotto la guida di Corbyn, nella House of Commons siede il più basso numero di parlamentari laburisti (202 su 650 seggi totali), così come non accadeva da 85 anni.
Solo Michael Foot era riuscito a fare tanto male, nel 1983, schiacciato dalla potenza di Margaret Thatcher che gli lasciò solo sette parlamentari in più rispetto a quelli presenti oggi tra le panche verdi di Westminster in quello che fu definito “il più lungo suicidio politico della storia”.
La pancia del partito
Quando Corbyn prese in mano il partito, ricorda il Guardian, si contavano 190.000 iscritti, dopo cinque anni si è superata quota 500.000 portando i Labour ad essere uno dei più grandi soggetti politici al mondo. Ciò dimostra la sua capacità di serrare le fila dimostrando anche di essere un abile protagonista di incredibili, quanto vane, rimonte elettorali.
A conferma dell’effetto polarizzante delle sue posizioni, nel bene e nel male, colpisce che nel giorno del passaggio del testimone, molti simpatizzanti e sostenitori del Labour Party, quando hanno visto la sconfitta dei candidati sulla sua scia, abbiano scelto di lasciare partito.
Non stupisce invece la dichiarazione di Momentum, compagine che racchiude i giovani suoi più strenui sostenitori e protagonisti della sua spinta a sinistra. “In questa nuova era Momentum giocherà un nuovo ruolo”, ha twittato l’orfano del suo leader, promettendo di controllare che Starmer mantenga le sue promesse, con toni più simili ad un monito che ad un incoraggiamento.
Momentum, negli anni, ha progressivamente dominato la macchina del partito e sarà ancora presente in ruoli chiave, insieme ad altri Corbynisti, che l’assetto strutturato dal nuovo capo cercherà di tenere in considerazione.
Dalla sua, Starmer, che finora ha cercato di riunirle a sé tutte queste anime, può vantare un risultato che Corbyn non era mai riuscito ad ottenere, ovvero la conquista del NEC (National Executive Committee). Tradotto, il corpo governativo del partito Laburista che controlla la direzione intrapresa dall’azione politica e il processo di formazione della linea e delle strategie attuare, cioè, la mente razionale e la mano del partito che da oggi torna in linea con il leader.
Molto era costato a Corbyn l’essere stato un personaggio così fortemente divisivo, perché se da una parte aveva rafforzato il senso di appartenenza dei suoi sostenitori, avere posizioni così estremiste aveva anche provocato numerosi addii tra i deputati, tanto scontento in quella parte della base che aveva smesso di riconoscersi in quel tratto e aveva regalato gioco facile a Boris Johnson, convinto del fatto che, sfidandolo, lo avrebbe facilmente sconfitto. E così è stato.
Prima di lui, nel 2017, ci era riuscita persino Theresa May, sulla cui mancata leadership a lungo si è discusso e prima di allora lo aveva già previsto anche David Cameron, forse in una delle poche profezie indovinate nella sua carriera, quando aveva salutato l’elezione di Corbyn come un ottimo auspicio per i Conservatori. E così è stato.
Il saluto di Johnson
Dopo averlo sfidato come un pugile, durante la campagna elettorale del Dicembre 2019, Boris Johnson nell’ultima seduta della House of Commons a fine Marzo ha salutato l’avversario ostentando rispetto, in un commiato che il diretto interessato, però, non ha gradito troppo.
Forse non hai capito – il senso della risposta di Corbyn – ma io resto sulla mia panca come deputato (uno dei più anziani dell’aula) e “la mia voce non verrà silenziata”.
Il lancio del guanto di sfida, però, si è guadagnato un sorriso quasi affettuoso da parte di BoJo, consapevole di non avere di fronte un nemico temibile, ma piuttosto una vittima delle sue stesse ideologie, ormai destinato all’irrilevanza politica. Di più, a causa del Covid-19, Johnson gli aveva anche raccomandato di chiudersi in casa per dodici settimane mentre lui si occupava di stringere mani a destra e a manca. Ma sappiamo com’è andata a finire con i due “ribelli”: Jeremy, violando l’isolamento, è andato in aula e in ufficio, mentre BoJo si è beccato il Coronavirus.
Il dato politico, a chiudere la relazione tra i due avversari, è invece rappresentato dal fatto che, nelle ultime settimane, alcuni esponenti della maggioranza avevano invitato i laburisti ad entrare in un governo di unità nazionale, per prendere parte alle scelte difficili quanto necessarie per affrontare questa situazione assolutamente inedita nella storia, dal secondo dopoguerra.
L’ormai ex leader laburista, nell’unica intervista concessa al Telegraph prima di uscire di scena, aveva sconsigliato ai suoi successori di accogliere questo invito, ma come detto, le sue ultime parole sono finite nel vento.
Nel giorno stesso dell’avvicendamento in casa Labour, a rivolgere un invito ufficiale al capo dell’opposizione, (quello appena eletto, sia ben inteso), è stato il Primo Ministro Boris Johnson, dal suo isolamento a Downing Street. “Come capi di partito abbiamo il dovere di lavorare insieme in questo momento di emergenza nazionale”, ha scritto. Non appena Starmer ha ricevuto la lettera ha accettato e dal primo giorno utile sarà presente al briefing del governo con il comitato che gestisce la crisi. Di più, nel suo discorso di insediamento, il nuovo leader laburista, dopo aver salutato Corbyn, aveva già teso la mano. “Nel mio mandato avremo un ruolo costruttivo anche nei confronti del governo” ha scandito.
Il tempo dirà se l’ingresso nella stanza dei bottoni sarà un’opportunità o una trappola per l’opposizione che così dovrà condividere responsabilità ed eventuali colpe.
Quel che è già certo è che le cose cambieranno, così come promesso e anticipato nel video che questo leader, dallo sguardo corrucciato e il piglio decisamente sbiadito su uno sfondo bianco e neutro, ha pre registrato in solitudine, così come il social distancing da pandemia ha imposto anche alle primarie inglesi. Senza pubblico, senza brindisi, senza applausi.
Che ne sarà del Corbynismo?
Jeremy Corbyn, prima di cedere il passo, si è lanciato nell’estremo tentativo di rivendicare la vittoria finale del Corbynismo: la sua Weltanschauung, la sua visione del mondo.
“Lo scorso novembre sono stato condannato per aver dichiarato di voler investire sulle paghe più basse affinché fossero rese decenti, ma solo adesso il governo ha capito che l’unico modo per uscire da questa crisi è investire su tutti i livelli della società”.
Spiegando che il libero mercato e il capitalismo non sarebbero la risposta alla crisi generata dal Covid-19, Jeremy Corbyn sulle frequenze di Sky News ha insistito nella battaglia contro i dieci anni di austerità firmati dagli ultimi governi e ha tentato di rivendicare il valore assoluto della sua ricetta sulla spesa pubblica aggiungendo che “finalmente anche i Conservatori lo hanno capito”.
“L’azione del governo non è una rivendicazione delle politiche di Corbyn – ha tagliato corto il professor Iain Begg della London School of Economics, aggiungendo che – si tratta invece di una risposta eccezionale ad una situazione senza precedenti”. Questi sono provvedimenti, conclude il ragionamento, che nessun governo prenderebbe in circostanze di normalità.
Il Corbynismo, spiega meglio Begg, se mai ha avuto qualche coerenza, sarà ricordato per aver perseguito una irrealistica forma di capitalismo Venezuelano che non ha mai avuto la minima possibilità di essere compiuto.
“Dubito che Boris Johnson e i Conservatori abbiamo il forte desiderio di controllare molte imprese statali come accadeva negli anni ’70” chiarisce il professore Steven McCabe della Birmingham City University. La verità è che l’impatto della pandemia sull’economia, secondo McCabe, non darà troppa scelta al governo rispetto alla necessità di ampliare la presenza dello stato e si andrà sicuramente oltre a quanto ritenuto necessario fino ad ora. “Forse, messa così, la situazione potrebbe dare ragione a Corbyn – aggiunge McCabe – ma è servita una crisi straordinaria per dimostrare che l’aumento della spesa pubblica possa considerarsi così virtuoso”. In conclusione, “una gran parte dei soldi investiti sono stati dedicati ad evitare una recessione a breve termine che potrebbe diventare una depressione a lungo termine che, a sua volta, genererebbe conseguenze economiche inimmaginabili”. Ma dopo, in qualche modo e con chiare variazioni al sistema capitalistico che abbiamo conosciuto ad oggi, si tenderà a tornare ad un nuovo modello che però, il senso del ragionamento di McCabe, non sarà mai il socialismo anni ’70 propugnato da Corbyn.
L’eredità nelle mani di Starmer
Nelle sue prime dichiarazioni, il nuovo leader dei Laburisti ha voluto chiedere scusa per le accuse di antisemitismo che hanno segnato profondamente il partito sotto la guida di Corbyn. “Una macchia” ha ammesso Starmer. Le accuse di antisemitismo e misoginia sono davvero ombre pesanti sulla storia dell’ex leader e hanno contribuito a generare rabbia e malcontento.
Corbyn ha concluso il suo mandato con i livelli di gradimento personale più bassi mai toccati prima. La sua “purezza ideologica” è stata la sua ossessione più grande, più della volontà di costruirsi un profilo in grado di vincere e un partito in grado di governare.
La conseguenza della sua azione ha significato la perdita delle roccaforti del Nord, delle aree post-industriali sedotte dal facile linguaggio di Johnson che furbescamente ha rubacchiato qua e là slogan e promesse dal sapore simil-laburista risultate alla fine più credibili quando pronunciate da lui, il leader dei Conservatori.
Ma sopratutto, a differenza dell’avversario – nato euroscettico, poi alla guida di un partito molto europeista – BoJo ha saputo dire una parola chiara sulla Brexit: “Get Brexit done”.
L’eredità di Corbyn, conclude il professor Begg sarà solo quella di avere reso il partito più debole di quanto non sia mai stato prima e la sfida di Keir Starmer sarà quella di riportare i laburisti alla realtà, soprattutto qualora Johnson si dimostrasse incapace di dare risposte all’emergenza Covid-19, aprendo così ad una vera competizione alle politiche del 2024, con una sfida aperta.
Contro un’eredità fatta di divisioni, a Starmer il compito di ricucire su tutti i livelli: risvegliare lo spirito di unità in un Paese che dalla Brexit in poi ha sofferto lacerazioni profonde; riconnettersi con i delusi e con l’elettorato storico smarritosi tra le braccia dell’eterno avversario; recuperare la fiducia all’interno del suo stesso partito.
Keir Starmer, poi, è chiamato a dare tante risposte perché si trova davanti ad un’emergenza sanitaria, economica e sociale inedita che chiede strategie diverse da giocare su tavoli nuovi.
Ma prima di tutto, ad essere tornata protagonista assoluta, in questo momento, è la politica che darà anche all’opposizione un ruolo fondamentale e metterà a confronto due avversari: il carisma di BoJo che ha vinto e convinto finora e la competenza, la serietà senza guizzi e tutta da verificare, del nuovo leader dei nuovi Labour.