Sebbene venga spesso annoverato tra i più illustri esponenti del “realismo politico” –  e solo in parte è così – è piuttosto difficile incasellare e circoscrivere Henry Kissinger, uno dei personaggi più importanti del ‘900, in una definizione precisa, sebbene l’etichetta “realista” (o Realpolitik) abbia assunto, nel tempo, contorni piuttosto elastici. Sta di fatto che, piaccia o meno, il “Professor Henry”, ex Segretario di Stato e consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti durante le presidenze Nixon e Ford, 97 anni compiuti lo scorso 27 maggio, continua a far parlare di sé grazie alla pubblicazione di una nuova biografia intitolata The Inevitability of Tragedy: Henry Kissinger and His World a cura di Barry Gewen, appena pubblicata negli Stati Uniti.

Una biografia nella quale Gewen difende sostanzialmente l’operato del diplomatico, anche nei passaggi più “controversi” della sua carriera politica costellata di inevitabili luci e ombre: dal capolavoro diplomatico di apertura delle relazioni con la Cina in funzione anti-sovietica, suggellata dalla storica visita del presidente Nixon a Pechino nel 1972, allo sviluppo della celebrata shuttle diplomacy nella guerra arabo-israeliana del 1973, a episodi decisamente più “oscuri”, come i bombardamenti americani in Cambogia iniziati nel 1969 o il coinvolgimento degli Stati Uniti in Cile, culminato nel colpo di stato del settembre 1973 che portò alla destituzione del socialista, democraticamente eletto, Salvador Allende e all’instaurazione del regime militare di Pinochet (“Non vedo perché dobbiamo stare a guardare un Paese diventare comunista a causa dell’irresponsabilità della sua stessa gente”, osservò in merito Henry Kissinger).

“Ecco perché abbiamo bisogno di Henry Kissinger”

Sulla sua figura e sul suo operato si possono leggere essere due visioni opposte. La prima, che traccia un bilancio perlopiù positivo, è a cura di Michael Hirsh, ed è stata pubblicata sulla prestigiosa rivista Foreign Policy. Secondo Hirsh, infatti, la diplomazia americana ha ancora bisogno dei consigli dell’anziano professore di Harvard autore di saggi-capolavoro del calibro di Diplomacy e On China, a maggior ragione in un momento storico nel quale l’interventismo liberale e il neoconservatorismo appaiono in crisi profonda. Come scrive Hirsh, “l’anarchia internazionale è in crescita e la rivalità fra le grandi potenze richiedono una diplomazia strategica esperta che Hans Morgenthau ha concepito nella teoria ed Henry Kissinger ha dominato nella pratica. Questo sembra essere il messaggio principale del libro di Gewen, che richiede di essere studiato, soprattutto in un momento in cui la sinofobia è in aumento”.

Richard Nixon con Henry Kissinger

Anche se il mondo è completamente cambiato rispetto all’inizio degli anni ’70 e ora la Cina è universalmente riconosciuta come il principale avversario strategico di Washington, secondo Gewen – e Hirsh – Washington potrebbe trovare ispirazioni proprio nei successi diplomatici dello stratega di origini bavaresi. Infatti, nota Foreign Policy, Henry Kissinger raggiunse i suoi successi – l’apertura delle relazioni con la Cina – “in un momento di debolezza degli Stati Uniti, durante la guerra del Vietnam” e in preda a “disordini civili” quando i diplomatici “dovettero trovare un terreno comune e un equilibrio tra le grandi potenze”.

“Il mito di Henry Kissinger”

Più negativa, proprio alla luce della nuova biografia di Gewen, la lettura che dà il New Yorker, che ricorda come lo stesso Hans Morgenthau – padre del realismo politico – rimase alquanto deluso dallo stesso Kissinger quando difese pubblicamente la guerra del Vietnam, nonostante quest’ultimo avesse ammesso privatamente che gli Stati Uniti non avrebbero potuto vincere. Per quanto riguarda la guerra in Cambogia, il New Yorker ricorda come “nel marzo 1969 Nixon e Kissinger diedero il via a una serie di bombardamenti segreti sul Paese, che rappresentava un rifugio sicuro per i vietcong e il Vietnam del Nord. In quattro anni, l’esercito americano lanciò più bombe sulla Cambogia di quante ne avesse lanciate nell’intero teatro del Pacifico durante la seconda guerra mondiale. La campagna uccise circa centomila civili e accelerò l’ascesa di Pol Pot”.

Tra le “macchie” nella carriera del diplomatico alla Casa Bianca a fianco di Nixon, ricorda sempre il New Yorker, c’è l’appoggio alla campagna di genocidio del presidente pakistano Yahya Khan contro il Pakistan orientale, nel 1971, che fu portato avanti per dimostrare quanto “l’America fosse dura”. Inoltre, da quando ha lasciato il suo incarico alla Casa Bianca, “Kissinger ha raramente contestato il potere, e tantomeno si è esposto con valutazioni scomode che hanno caratterizzato, per esempio, la carriera di George Kennan, che mise in guardia il Presidente Clinton dall’espansione della Nato dopo il crollo dell’Unione sovietica”. È istruttivo inoltre “misurare gli istinti di Kissinger contro quelli di un vero realista, come il politologo dell’Università di Chicago John J. Mearsheimer. Alla fine della Guerra Fredda, Mearsheimer era così convinto nel principio dell'”equilibrio del potere” che fece la suggestiva proposta di consentire la proliferazione nucleare in una Germania unificata e in tutta l’Europa orientale. Kissinger, incapace di vedere oltre l’orizzonte della Guerra Fredda, non poteva immaginare altro scopo per il potere americano che la ricerca della supremazia globale”.

In definitiva, Henry Kissinger si comportò da vero “realista” – alla maniera del sopracitato Mearsheimer o di Hans Morgenthau – quando aprì le relazioni diplomatiche degli Usa alla Cina, non certo quando appoggiò il golpe militare in Cile, spinto da motivazioni ideologiche oltre che spietatamente tattiche. Perché Kissinger è Kissinger e null’altro: stratega geniale, cinico cospiratore e abile diplomatico. E a 97 anni suonati il suo operato è ancora al centro del dibattito politico.





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