Shalamcheh, Khoramshahr, Abadan. Nomi di località che probabilmente significano poco, se non niente per chi è nato dopo il 1991, data con la quale convenzionalmente si fa concludere la Guerra fredda. La lettura della storia è ancora controversa su quegli eventi, tanto che se una parte di mondo ha costruito una narrativa incentrata sulla vittoria della Guerra fredda, un’altra, nella fattispecie la Russia di Vladimir Putin, non ritiene che il proprio Paese, seppure uscito ridimensionato, abbia perso la Guerra fredda. Ancora più complessa e controversa è la decifrazione di alcuni conflitti che, seppur collocandosi in quel cinquantennio di equilibrio di terrore caratterizzato dalla contrapposizione tra Stati Uniti e Urss, hanno determinato e continuano a determinare la storia, le scelte e gli allineamenti in Medio Oriente. Il caso della guerra Iraq-Iran, o della guerra “imposta”, come viene definita in Iran, è uno di questi. Per l’Iran, la guerra che dal 1980 al 1988 si consumò con alternanti vicende lungo il confine con l’Iraq, costituisce ancora uno degli elementi fondanti della Repubblica islamica iraniana e viene celebrata, così come la rivoluzione del ’79, attraverso musei, luoghi sacri, pellegrinaggi, la memoria dei veterani e le testimonianze dei familiari dei “martiri“.
Le raffigurazioni dei martiri sono un tratto distintivo dell’Iran tanto che sia a Teheran così come in molte altre città è possibile, percorrendo le arterie stradali, vedere al posto dei tradizionali cartelloni pubblicitari, le foto dei martiri della guerra Iraq – Iran. Quello che si nota, guardando le foto dei martiri è, nella maggior parte dei casi la loro giovane età. Ragazzi che, tra il 1980 e il 1988 si scontrarono con l’esercito iracheno di Saddam Hussein in un conflitto divampato, apparentemente, per la demarcazione della frontiera tra Iran e Iraq (fissata nel 1639) e poi trasformatosi in una guerra regionale per il predominio del Golfo Persico.
Sebbene alcuni studi della guerra Iraq – Iran tendano ad accentuare la tesi secondo la quale la delimitazione del confine sia stata, nei secoli, motivo di tensione, fu con la contesa del tracciato del fiume Shatt al – Arab (in arabo), Arvand (in persiano), che si manifestarono scontri tra i due paesi tra gli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, culminati con gli accordi di Algeri del 1975 tra Saddam Hussein e Mohammed Reza Pahlavi che andavano a regolamentare il confine tra Iraq e Iran nonché l’utilizzo delle acque del fiume conteso. La disputa del confine tra Iraq e Iran non spiega, tuttavia, del tutto il particolare contesto internazionale all’interno del quale maturò e si propagò il conflitto tra i due paesi tanto che almeno altre due teorie sono state formulate per comprendere le motivazioni dell’attacco iracheno. Se non è del tutto improbabile che Saddam Hussein temesse l’espansione della rivoluzione iraniana tra gli sciiti iracheni è certamente verosimile ritenere che Saddam volesse sfruttare il clima di incertezza successivo agli eventi del ’79 per ricavare qualche vantaggio territoriale sullo Shatt al – Arab e sui campi petroliferi della regione del Khuzestan. La volontà di Saddam Hussein di mostrarsi al mondo arabo come potente leader nazionale e protettore degli arabi del Khuzestan iraniano, insieme all’indole avventuriera e opportunistica, sembrano potere spiegare le ragioni iniziali della prima fase del conflitto (cfr. Michael Axworthy, Iran rivoluzionario, LEG Edizioni 2017). Il 17 settembre 1980 Saddam Hussein annunciò che l’Iraq non si riteneva più tenuto a rispettare gli accordi di Algeri e il 22 circa 45mila uomini delle truppe terresti irachene entrarono in territorio iraniano in quattro colonne d’attacco, appoggiate dal supporto dell’aviazione. In questa fase, gli iracheni sfruttarono il fattore sorpresa, ottenendo significativi successi. La difesa iraniana all’inizio fu debole ma aumentò con l’arrivo dei riservisti, avviatisi verso i punti di raccolta, insieme ai volontari che sarebbero andati a costituire l’ossatura dei Sepah. Questi ultimi erano entusiasti ma spesso privi di esperienza al combattimento e subirono gravissime perdite nei primi mesi di guerra.
Nella recente storia della Repubblica Islamica dell’Iran, la guerra Iraq – Iran è nota con l’espressione “la guerra imposta” o “difesa sacra” in virtù delle operazioni militari condotte dalle varie milizie Sepah, Basij e Forze Armate per contrastare l’invasione irachena. Una guerra locale che, nel corso degli anni, si era trasformata in un conflitto regionale, considerato da molti come la prima “guerra del golfo” cronologicamente precedente a quella del 1990 – 1991 e che vide protagonista una vasta coalizione occidentale contro Saddam Hussein, reo di avere invaso il Kuwait. Molti dei paesi occidentali coinvolti nell’Operazione Desert Storm, avevano, nel corso della guerra Iraq – Iran, sostenuto a vario titolo e in misura differente Saddam Hussein. Gli Stati Uniti, la Russia, la Francia, la Germania, le monarchie del Golfo avevano contribuito a sostenere militarmente lo sforzo bellico di Saddam Hussein, finanziato anche grazie ai 25 miliardi di dollari concessi dai sauditi (cfr. Robert Fisk, Cronache mediorientali, Il Saggiatore 2005). Fu un conflitto sanguinosissimo, per il quale le stesse cifre relative al numero dei caduti sono tutt’ora incerte, oscillando tra il milione di vittime da ambo le parti, al milione di vittime iraniane, fino alle stime di 220mila morti e 400mila feriti per l’Iran e di 500mila caduti per l’Iraq. L’eredità di quel conflitto, degli attori regionali coinvolti e del ruolo della Comunità internazionale è ancora presente nella politica iraniana, non solo tra i veterani del conflitto ma in buona parte dell’opinione pubblica. Un alto generale dei Sepah mi fa notare che contro l’Iran si schierarono più o meno indirettamente le due superpotenze, Stati Uniti e Urss, che si erano confrontate negli anni della guerra fredda, sfiorando con la crisi del 1962 di Cuba, la guerra nucleare.
Nel ripercorrere alcuni dei luoghi simbolo della guerra Iraq – Iran, ci rechiamo in direzione di Kahein river, una delle zone di operazione del conflitto Iraq – Iran. Uscendo da Abadan prendiamo la strada che porta direttamente al confine con l’Iraq e ci dirigiamo verso il fiume Arvand. La zona, abbandonata la strada che va al confine con l’Iraq, è sostanzialmente desertica. Un tempo c’era vegetazione, palme e villaggi. È l’area dove sono avvenute più distruzioni e ancora, nonostante siano passati 30 anni dalla fine della guerra, ci sono ancora mine. Ci fermiamo nei pressi dei ruderi di una moschea, utilizzata dagli iracheni come torre di avvistamento, cosa peraltro sacrilega visto che si tratta di un luogo sacro. Intorno alla moschea il nulla, se non qualche palma che intravedo in lontananza divelta all’estremità dal tiro dell’artiglieria irachena. La palma è una pianta in grado di sopravvivere in condizioni estreme ma una volta colpita alla sua estremità muore. Un altro simbolo della forza distruttiva della guerra.
Dopo la visita alla moschea giungo alla riva del fiume Shatt al – Arab / Arvand. Nomi diversi per chiamare lo stesso fiume formato dalla confluenza del Tigri e dell’Eufrate e teatro di violentissime battaglie che nella loro drammaticità rievocano la guerra di posizione del Primo Conflitto mondiale, fatta da assalti nel tentativo di conquistare metri o vette delle montagne in territorio nemico. Nel punto dal quale mi affaccio sulla sponda iraniana il territorio iracheno è distante una quindicina di metri. Dall’altra parte della sponda si vede distintamente un piccolo fortino della polizia di frontiera irachena. La località sulla sponda del fiume si chiama Khaien ed è frequentata da pellegrini e parenti delle vittime della guerra. A ridosso dell’argine del fiume vi sono dei ragazzi che si prendono cura di un’area in cui sono esposte centinaia di piccole immagini raffiguranti i “martiri”, così vengono chiamati, della guerra Iraq – Iran. Il luogo, meta del pellegrinaggio di donne e madri dei caduti in guerra, è gestito da volontari e giovani ragazzi in mimetica. A fermarsi sulla sponda della riva ecco arrivare una madre di uno dei tanti ragazzi morti e scomparsi nella guerra nelle paludi dello Shatt al – Arab. Ogni anno, dal 1988, si reca in questo luogo nella speranza di ritrovare il corpo di suo figlio. Molte delle vittime delle battaglie combattute in questa località erano giovanissimi incursori, uomini rana, e poco distante dalla sponda del fiume incontro uno dei pochissimi sopravvissuti delle offensive Karbala 4 e 5. È un incursore e mi mostra alcune vecchie foto del reparto di uomini rana impegnati in quegli anni sul fronte di guerra. La stragrande maggioranza era proveniente dall’università, quasi tutti volontari privi, in larga parte, di adeguato equipaggiamento per operare in un simile ambiente. Anche egli, come molte persone che si trovano a Khaien, si occupa di preservare la memoria di quei luoghi.
Terminata questa visita, ci spostiamo a Shalamcheh, una località situata nella regione di Khoramshahr, a ridosso del confine con l’Iraq. Qui si trova un enorme museo a cielo aperto dove sono presenti numerosi carri armati sovietici modello T 62 in dotazione dell’esercito iracheno, filo spinato, cavalli di frisia e una moschea dedicata ai martiri della guerra Iraq – Iran. Poco più in là, la caserma della polizia di frontiera iraniana e, separata dalla recinzione metallica che delimita la frontiera tra Iraq e Iran, si intravede l’edificio della polizia irachena. In quest’area si è combattuto aspramente anche perché buona parte della zona in cui mi trovo era stata sommersa dalle acque di un bacino idrico artificiale fatto esondare, che si trovava in territorio iracheno, per rendere ancora più difficile la riconquista da parte degli iraniani. Il livello dell’acqua, che aveva determinato un vero e proprio acquitrino, raggiungeva anche l’altezza di un metro e sotto c’erano mine anti uomo e anti carro. Un’area del sito è rimasta ancora ricoperta d’acqua, fili spinati e cavalli di frisia per illustrare le condizioni di come era costituita la linea difensiva irachena.
Prima di rientrare all’aeroporto la vettura rallenta di fronte alla grande raffineria petrolifera di Aban, luogo simbolico per l’Iran contemporaneo. È da qui che nel 1951 ebbe inizio, con la nazionalizzazione da parte del governo iraniano di Mohammad Mossadeq dei beni della Anglo – Iranian Oil Company, la crisi tra Iran e Regno Unito. Nonostante il riconoscimento dei diritti iraniani da parte dello stesso Consiglio di Sicurezza dell’ONU e della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, il governo di Mossadeq fu rovesciato tramite il colpo di stato pianificato dal Regno Unito ed appoggiato dalla CIA, noto con il nome di operazione Ajax, che riportò al potere, nel 1953, Mohammad Reza. In epoca più recente, Abadn si è nuovamente intrecciata con la storia della Repubblica Islamica dell’Iran: il 19 agosto del 1978, quando l’incendio del cinema Rex provocò la morte di 420 persone. Un evento che inasprì le tensioni e l’escalation delle proteste contro lo Shah, in quanto si sparse la convinzione che a dare fuoco al cinema fosse stata proprio la polizia politica dello Shah, la SAVAK, impegnata a dare la caccia ad alcuni individui nascostisi all’interno del cinema. Nel settembre del 1980, Abadan venne devastata da una serie di attacchi a sorpresa da parte degli iracheni che segnarono l’inizio della guerra. La città, sede di una delle più grandi se non la più grande raffineria di petrolio al mondo, fu assediata per 18 mesi, ma non venne mai conquistata. Abadan e Khoramshahr, quest’ultima considerata la Stalingrado dell’Iran, sono oggi luoghi dove i segni del passato sono ancora visibili, con alcuni edifici segnati dalle esplosioni e dai fori dei proiettili. Proprio a Khoramshahr, si trova, nella ex sede del quartier generale iracheno, uno dei più importanti musei della guerra Iraq – Iran. La facciata dell’edificio è rimasta così come era al termine della guerra, con una serie di fori di proiettili in evidenza. All’interno, armamenti, mine anti carro ed anti uomo, mine subacquee, artiglieria, uniformi, piastrine di riconoscimento dei soldati iraniani e anche i documenti d’identità dei soldati iracheni fatti prigionieri. Alcune foto mostrano come la città sia stata a lungo trasformata in una trincea a cielo aperto, dove oltre ai combattimenti strada per strada, venivano usati anche i canali per il trasporto dell’acqua come vere e proprie trincee. La riconquista della città, sviluppatasi nell’ambito dell’Operazione Fath – ol – Mobin, nella notte tra il 22 e il 23 maggio 1982, fu una delle più importanti vittorie iraniane della guerra, nella quale si affermò la figura del leggendario Generale Shahid Ali Sayyad Shirazi, poi divenuto Sottocapo di Stato Maggiore delle Forze Armate Iraniane.
La guerra, con i ricordi dei veterani, le immagini e i numerosi strumenti di morte, presenta ancora molti aspetti ignorati o non oggetto di studio e ricerca. Soppiantata dall’attenzione mediatica e dalle ricerche di altre guerre regionali, prima fra tutte il conflitto tra la Comunità internazionale e l’Iraq di Saddam Hussein tra il 1990 e il 1991, la “guerra imposta” rappresenta un elemento unificante della storia della Repubblica Islamica dell’Iran e una preziosa chiave interpretativa per comprendere l’Iran contemporaneo e la sua geopolitica nel contesto internazionale. Un paese dal forte orgoglio nazionale che, come ricordava Ennio Di Nolfo, mai nella storia era stato sconfitto in guerra e, nonostante la percezione della propria potenza, non aveva mai promosso azioni aggressive, pur essendo stato indirettamente (ai tempi di Mossadegh) o direttamente (nel 1980) aggredito da paesi esterni.