Nei giorni che hanno preceduto il recente Vertice NATO di Vilnius, tutti i maggiori protagonisti di questo evento hanno osservato nervosamente le mosse di uno dei membri dell’Alleanza. In particolare, il Segretariato, l’azionista di riferimento, gli Stati Uniti, unitamente a tre convitati di pietra: la Svezia, candidata ad entrare nell’Alleanza; la povera Ucraina, che quindici anni dopo il Vertice NATO di Bucarest del 2008 dove venne annunciato il suo futuro ingresso nell’organizzazione, si è dovuta accontentare di una conclusione sostanzialmente identica a quella di quindici anni fa, e addirittura l’Unione Europea che, in un mondo ideale dove si valorizzasse l’autonomia, quand’anche fosse strategica, si distinguerebbe nettamente dalla NATO.
All’origine della tensione sulle sponde del Baltico vi è stato il Presidente turco Recep Tayypp Erdogan. Per alcuni giorni ha tenuto tutti con il fiato sospeso prima di offrire l’assenso all’ingresso della Svezia nell’Alleanza Atlantica, premurandosi tuttavia di aggiungere che la parola finale spetterà al Parlamento turco nell’ambito di un rilancio del processo di adesione della Turchia all’Unione Europea, sospeso dal 2007.
Tale situazione deve aver ingenerato anche molta confusione con inversioni di ruoli a dir poco tragicomici. La Presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, ha dichiarato che l’ingresso della Svezia nella NATO è una “tappa storica”, mentre il Segretario Generale della NATO, Jens Stoltenberg, ha affermato che “la Turchia è più vicina all’UE”. Nulla meglio di queste due dichiarazioni incrociate illustra quanto le due organizzazioni siano ormai sovrapponibili e i rispettivi vertici intercambiabili.
Tralasciando i comprimari, ovvero gli attuali vertici di NATO e Commissione UE, è più opportuno focalizzarsi sui protagonisti, coloro che – nel bene e nel male – hanno fatto e stanno facendo la storia. In questo primo scorcio del XXI secolo il Presidente turco sembra trovarsi a proprio agio in quest’ultimo ruolo.
È difficile trovare negli ultimi due decenni un leader più imprevedibile, spregiudicato, ma allo stesso tempo carismatico dell’attuale Presidente della Turchia. È forse ancora prematuro immaginare se quest’ultimo avrà nel suo Paese un impatto pari o superiore a Mustafà Kemal, il padre della Turchia moderna; ma è indubbio che dinanzi al rilievo internazionale che Erdogan ha saputo imprimere al suo Paese, quello di Kemal Ataturk, francamente, impallidisce.
Non vi è stato dossier internazionale in questi due decenni in cui la Turchia non abbia svolto un ruolo: NATO, UE, Iraq, Siria, Libia, Afghanistan, Ucraina, conflitto tra Azerbaigian ed Armenia, conflitto israelo-palestinese, questione curda, terrorismo, Primavere Arabe, Islam politico, flussi migratori, dossier energetici, sicurezza alimentare. La lista è sicuramente approssimata per difetto.
Naturalmente la politica estera turca ha conosciuto successi ed insuccessi, tra questi ultimi, quello più rilevante ha avuto luogo in Siria. Il tentativo di rovesciare Bashar Al Assad così caparbiamente portato avanti da Erdogan è fallito e i danni collaterali – ovvero il sostegno all’integralismo islamico e a frange prossime ad Al Qaeda con tutti i connessi episodi di terrorismo – sono stati elevatissimi. Tra questi danni collaterali non va certo dimenticata l’impennata dei flussi migratori verso l’Europa nel 2015.
Erdogan, tuttavia, non si è mai perso d’animo e ha continuato a giocare su più tavoli. Bellicoso nel Kurdistan turco e iracheno, cruciale nel portare l’Azerbaigian alla vittoria nel recente conflitto con l’Armenia, assai vicino ad un successo spettacolare nel mediare nella primavera 2022 una possibile tregua tra Russia ed Ucraina, fondamentale nel concludere l’accordo per le esportazioni di cereali dall’Ucraina che hanno impedito – per qualche tempo – una crisi alimentare globale.
A Vilnius, Erdogan ha giocato bene le sue carte. Nessuno crede ormai che la Turchia potrà entrare nell’UE ma il leader turco avrebbe comunque ottenuto tutta una serie di concessioni: un regime dei visti dell’UE verso i cittadini turchi più aperto, sempre con l’UE un miglioramento dell’attuale Accordo Doganale, e, finalmente, la luce verde degli Stati Uniti alla fornitura di nuovi aerei F16. Situazioni potenzialmente destabilizzanti come il provocatorio rogo pubblico del Corano, maldestramente e incomprensibilmente autorizzato dalle autorità svedesi, non hanno influito, a conferma del grande pragmatismo che Erdogan – se necessario – è in grado di manifestare.
Una delle principali priorità dell’UE, la gestione dei flussi migratori dal Medio Oriente e dal Nord Africa, resta condizionata alla volontà di Ankara che ospita milioni di profughi siriani e che svolge un ruolo di primo piano in Libia, da dove parte una vasta percentuale dei flussi migratori provenienti dall’Africa.
Ankara, quindi, continua ad adottare una politica a geometria variabile: è un membro della NATO ma non sottoscrive le sanzioni occidentali contro la Russia, svolge il ruolo mediatore nel conflitto ma poi sostiene l’aspirazione di Kiev ad entrare nella NATO e libera 4 membri di spicco della brigata Azov catturati a Mariupol venendo meno alle intese siglate con Mosca per lo scambio di prigionieri tra Russia e Ucraina.
Dopo anni e risorse spese a sostenere la Fratellanza Musulmana ora la Turchia, assetata di capitali, apre ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti che vedono l’organizzazione come il fumo negli occhi, ed ha appena ristabilito le relazioni diplomatiche con l’Egitto. Si vocifera addirittura di un prossimo viaggio del Presidente El Sissi ad Ankara.
Erdogan sembra sempre pronto a cambiare le sue posizioni a seconda delle convenienze del momento, potrebbe presto diventare il primo membro della NATO ad entrare a far parte dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) il gruppo che si profila sempre più come l’alter ego del G7 sullo scenario internazionale e che sembrerebbe orientato a creare una propria valuta per gli scambi commerciali alternativa al dollaro: un vero e proprio dito nell’occhio nei confronti degli Stati Uniti, le cui potenziali conseguenze sono ancora tutte da valutare
Questa disinvoltura inizia ad essere etichettata con un termine ad hoc: “Erdoganismo”, ovvero un insieme di ideologia, uso della forza, persistenza e pragmatismo.
L’ideologia affonda le radici nell’Islam politico che consente ad Erdogan di beneficiare ancora di una vastissima area di consensi nell’Anatolia profonda, il vero zoccolo duro del suo pluriennale successo politico. Il pragmatismo viene perseguito nel puro interesse del Paese e soprattutto quello suo personale con un semplice slogan “ieri è ieri e oggi è oggi”, ovvero è possibile tutto e il contrario di tutto. Nella sua condotta il Presidente turco si avvale di un abile dosaggio di intimidazione e speranza. A completare i tratti salienti dell’Erdoganismo concorrono una forte dose di populismo sulla base di una sorta di “spirito del fare”. Molte grandiose opere infrastrutturali realizzate da Erdogan nel ventennio appena trascorso hanno subito forti critiche dai partiti laici ma resta il fatto che una parte consistente della popolazione turca trova in queste realizzazioni motivi di un forte orgoglio nazionale. Il principale consigliere di Erdogan, Ibrahim Kalin, appena nominato capo dell’intelligence al posto di Hakan Fidan che, dopo oltre un decennio nell’incarico, passa al dicastero degli Esteri, nel 2013 coniò il termine “preziosa solitudine” per identificare e giustificare le scelte populiste turche, specialmente nel cruciale periodo tra le Primavere Arabe del 2010 e il fallito colpo di Stato del 2016. La “preziosa solitudine” è stata, per lungo tempo, un moltiplicatore di potere per il leader turco.
La sintesi di tutto questo insieme di scelte politiche e slogan confluisce in una sintesi “Islam Turco” che svolge un ruolo trainante sia nella politica interna che in quella estera della Turchia con evidenti propaggini verso l’Asia Centrale dove il ceppo linguistico turco è alquanto diffuso.
Il principale problema di Erdogan, naturalmente, è Erdogan, in particolare la sua testardaggine. Sul versante economico, dove la situazione della Turchia è tutt’altro che rosea anche a causa del recente terribile terremoto, ha in questi anni adottato alcune scelte economiche che confliggono apertamente con i fondamentali della macroeconomia; ad esempio, la pretesa di combattere il livello altissimo dell’inflazione nel paese abbassando anziché innalzando il livello dei tassi di interesse. Con il numero di Ministri delle Finanze e Governatori della Banca Centrale licenziati da Erdogan negli ultimi anni ci si potrebbe costituire una squadra di calcio.
Non è un caso tuttavia che, all’indomani del Vertice di Vilnius, il decano dei giornalisti investigativi statunitensi (uno dei pochi rimasti nel campo) Seymour Hersh, e che vanta ancora fonti eccellenti nei gangli del potere di Washington, abbia rivelato che in cambio dell’accesso della Svezia alla NATO, il Presidente Biden avrebbe promesso ad Erdogan una linea di credito di 11-13 miliardi di $ che verrebbe resa disponibile dal Fondo Monetario Internazionale. Vedremo.
Una crisi finanziaria, infatti, potrebbe essere la principale minaccia che si profila per la Turchia ma in prospettiva è probabile che anche in quest’ultima malaugurata eventualità Erdogan abbia qualche coniglio da tirare fuori dal cappello. In fin dei conti egli detiene le chiavi di parte degli approvvigionamenti energetici dell’Europa in un momento assai critico e, soprattutto, qualora fosse messo all’angolo potrebbe nuovamente aprire gli argini ad un flusso migratorio di milioni di persone diretto verso il vecchio continente.
Mentre nella complessa vicenda turca nessuno sembra disporre di carte vincenti, il principale quesito resta: l’Erdoganismo sopravviverà ad Erdogan?