Negli ultimi tempi Mike Pompeo ha incarnato l’ala più dura dell’amministrazione Trump in relazione al contenimento della Cina. Un contenimento che il segretario di Stato repubblicano ed ex direttore della Cia intende preparare su ogni fronte. Pompeo ha viaggiato nelle ultime settimane tra il Medio Oriente e l’Europa, toccando Paesi strategicamente alleati degli Usa come Regno Unito e Israeleper arruolarli nel fronte del contenimento anti-cinese; ha alzato l’asticella della rivalità tecnologica e militare con l’Impero di Mezzo, guidando l’offensiva diplomatica a stelle e strisce per ridurre il peso di Huawei nel 5G dei Paesi amici; infine, ha portato a un livello ignoto in precedenza nell’era della coabitazione tra Trump e Xi Jinping lo scontro retorico.
Mentre, nelle scorse giornate, andava in scena la guerra diplomatica incrociata tra le due potenze e si assisteva alla chiusura del consolato cinese a Houston e di quello statunitense a Chengdu Pompeo ha rispolverato toni e posture che sarebbero apparse radicali anche ai tempi della Guerra Fredda, invitando i cittadini cinesi a “cambiare la leadership del Partito Comunista” in un discorso tenuto il 23 luglio scorso alla Richard Nixon Presidential Library di Yorba Linda, California.
Pompeo ha lanciato un ammonimento al “mondo libero” su una Cina “sempre più autoritaria” sottolineando la necessità di “trionfare sulla nuova tirannia“. La battaglia dei giganti si fa scontro a tutto campo, Washington, forse sopravvalutandola, individua definitivamente nell’ascesa cinese una minaccia esistenziale alla sua sicurezza nazionale e alla sua posizione di forza e il segretario di Stato italo-americano si fa interprete retorico della nuova crociata. Il Dipartimento di Stato torna centrale di elaborazione politica e, possiamo dirlo, ideologica: nel 1947, col suo “Lungo Memorandum” il funzionario George Foster Kennan teorizzò la dottrina del contenimento dell’Unione Sovietica; oltre vent’anni dopo, il consigliere alla sicurezza nazionale Henry Kissinger diede il là alla diplomazia bilaterale sino-americana che avrebbe amplificato dopo il suo arrivo a Foggy Bottom nel 1973. Ora Pompeo si fa artefice del nuovo bipolarismo, spostando a un livello superiore la sfida che Barack Obama aveva prefigurato come contesa geopolitica e Trump aveva inaugurato in ambito commerciale.
A Pomepo mancano però l’acume, la visione strategica e la capacità politica di Kennan e Kissinger, oltre che un fondamentale elemento di base per portare avanti una diplomazia vincente: la conoscenza della storia e delle relazioni internazionali. Appellarsi al “mondo libero” e al conflitto con la “tirannia” difficilmente potrà portare all’arruolamento di gendarmi fedeli, specie in una fase in cui l’Europa non dispone delle capacità politiche di incidere e i Paesi indo-pacifici, compresi quelli più duramente anti-cinesi (Giappone, India, Australia) preferiscono strategie autonome e felpate per evitare un conflitto a tutto campo. Al contempo, l’appello al regime change dimostra una scarsa conoscenza del sistema cinese e del rapporto verticistico tra i cittadini dell’Impero di Mezzo e il loro governo, che da millenni tende a riproporsi in forma monocratica e centralista. “I cinesi sono un “impero” da duemiladuecento anni a prescindere dal colore”, ha fatto notare l’analista Pierluigi Fagan, e da tempo anche a Washington una folta schiera di analisti e decisori ha compreso la natura peculiare del sistema cinese. Autoritario da un lato, fondato sulla continua ricerca del consenso e dell’ordine sociale attraverso lo sviluppo economico dall’altro.
“Uno dei temi centrali del discorso di Pompeo”, fa notare National Interest, “è l’apparente convinzione che gli Usa possano cambiare la natura e la condotta del regime cinese”, oggi in grado di guardare a Washington con un piede di parità. Ma se da un lato Pompeo ha a più riprese affondato il colpo sulla Cina parlando della repressione nello Xinjiang, della dura risposta alle proteste a Hong Kong (in cui la polizia cinese non ha però ancora alcuna vittima sulla coscienza, al contrario di quanto avvenuto durante i moti statunitensi di inizio estate), dall’altro l’invito al cambio di regime non può fare altro che dare fiato alle trombe della propaganda del Partito Comunista di Pechino. Secondo National Interest, infatti, questo potrebbe portare Pechino a definire “corroborati i suoi reclami a Washington per le operazioni sovversive sul fronte interno”. Ciò di più lontano dallo stimolare il popolo cinese a criticare il governo che si possa immaginare. Per superficialità, dunque, l’errore di Pompeo è simmetrico e complementare a quello compiuto negli Anni Novanta da Bill Clinton, che spianò la strada all’ingresso della Cina nelle istituzioni di libero mercato di stampo occidentale ritenendo che questo avrebbe favorito la democratizzazione e la normalizzazione di un Paese in realtà ben attento a programmare i suoi interessi strategici.
Pompeo, in definitiva, sconta la principale debolezza analitica della cultura politica e dell’approccio statunitense alla politica internazionale: una sostanziale superficialità che porta a porre in essere immediati e molto spesso fuorvianti paragoni con il passato. Gli Stati Uniti cercano di approcciarsi alla Cina in maniera simile a quanto fatto durante il conflitto bipolare con l’Urss, dimenticando che i tempi sono cambiati e la conflittualità oggi è ibrida, strisciante, trasversale; così in precedenza era stato fatto con la Russia di Vladimir Putin, il cui presunto espansionismo era stato addirittura paragonato a quello della Germania nazista; la guerra globale al terrore, in passato, è stata affrontata con la stessa logica di un conflitto statuale e con una mentalità sorpassata, senza comprendere la pervasività della battaglia sociale e politica. Questo porta a leggere le situazioni in maniera distorta e a far perdere il punto focale delle questioni più importanti: Pompeo sulla Cina è incappato in un granchio che può portare Washington a seguire piste illusorie nella sfida a tutto campo con Pechino