La via del Recovery Fund è lastricata di buone intenzioni, ma anche di trappole. Tante trappole che rischiano di produrre un effetto domino pericolosissimo per un’Europa che stenta a decollare dopo la devastante crisi del coronavirus.
Uno dei più inquietanti ostacoli al percorso del Recovery rimane quello della ratifica da parte dei singoli Stati membri dell’Unione europea. Una scelta che nasce dalla necessità di far passare questo piano di aiuti in una platea di Paesi con governi completamente differenti e con opinione pubbliche che si pongono su posizioni opposte. Ma questa forma di “democratizzazione” del nodo Recovery rischia di essere più l’origine di una estenuante contrattazione che l’effetto di una scelta rispetto della sovranità dei singoli Stati membri. E il pericolo che l’approvazione collettiva si trasformi in un pantano politico non è un’ipotesi così remota.
Si rischia uno stop dalla Finlandia
Il Corriere della Sera ricorda ad esempio che dopo il problema della Corte costituzionale tedesca, adesso è il turno della Finlandia, che “ha stabilito che per la ratifica è necessaria una maggioranza qualificata dei due terzi sui 200 seggi del Parlamento”. E questo rischia di diventare un problema, nel momento in cui il parlamento si ritrova a dover gestire un delicato scontro sulla legge di bilancio e con i partiti di opposizione che necessariamente dovranno approvare il piano del Recovery pur non avendo alcun desiderio di farlo. Le trattative sono andate avanti per una settimana, ma il rischio di un “Vietnam” legislativo c’è e può incrinare l’approvazione in tutto il continente. Stesso discorso vale per altri Stati come Austria, Estonia, Polonia e Irlanda, dove i parlamenti e i governi trattano a oltranza per arrivare un compromesso che non metta in pericolo il semaforo verde al Fondo Ue. E questo rischia inevitabilmente non solo di far slittare i tempi dell’approvazione, ma anche potenzialmente di farli saltare.
Il fatto che l’intero piano europeo sia appeso alla volontà dei singoli Paesi ha chiaramente una doppia lettura. C’è chi può considerarlo un trionfo della sovranità nazionale che può incidere su un piano continentale. C’è invece chi può interpretarlo come una debolezza intrinseca del progetto europeo, costretto a dover attendere istituzioni di paesi con altri problemi e altri interessi. Difficile trovare una mediazione tra queste due visioni contrapposte, ma è sicuramente un sintomo di un deficit europeo non solo nel processo decisionale, ma anche nell’idea stessa di Europa.
I rischi della “palude” europea
Dopo negoziati a oltranza e accordi conclusi dai leader riuniti a Bruxelles o nelle innumerevoli videoconferenze dello scorso anno, tutto faceva presagire che si sarebbe avuta una strada più o meno spianata nel dare il via libera a un piano che arriva già tardi e sicuramente non con tutti gli strumenti adeguati. Ma adesso quegli accordi, che di per sé già avevano avuto i placet dei singoli governi, ora dovranno essere portati al vaglio di parlamenti che non solo rispecchiano diverse esigenze, ma che si rischiano di far entrare tutto quanto nel gioco della politica interna del singolo Stato membro. Declinando in forma nazionale quello che già era visibile in sede di trattative comunitarie, quando ogni rappresentante doveva svolgere una difficilissima transazione tra interessi di partito, interessi del governo, del paese e dell’Europa.
Il problema è che questo percorso a ostacoli rischia non tanto di provocare cambiamenti negli accordi, ma soltanto pericolosi ritardi. Inutile negare che l’approvazione dei parlamenti nazionali può arrivare con enormi pressioni esterne. Possiamo credere, ingenuamente, che molti di questi partiti si muovano con una libertà di manovra totale. Ma è evidente che il potere di far saltare un accordo su cui l’Ue si gioca la sua stessa sopravvivenza avrà delle fisiologiche forme di coercizione.
Di qui dunque il problema di poter coniugare da un lato la pressione di Bruxelles per sopravvivere, dall’altro le decisioni politiche e strategiche dei vari partiti di paesi con necessità contrapposte ad altri. Se non sarà possibile far saltare l’accordo, a meno che non si voglia provocare la più grossa crisi finanziaria della storia europea, l’unica alternativa per molti parlamenti sarà portare avanti trattative segrete con governi e istituzioni europee e rallentare il più possibile l’approvazione dei vari piani. Eventualità che però può mettere a dura prova le casse di molti Paesi che ormai dipendono completamente dall’ok a questo piano da 750 miliardi. Situazione in cui si trova anche la stessa Italia: il premier Mario Draghi ieri ha parlato del destino dell’Italia e che tutto si gioca con il Recovery. L’idea che il nostro destino non sia in mano al nostro parlamento ma a quello di Helsinki o Varsavia non può che far riflettere sul complesso meccanismo di decisione per un’Italia che non pu più aspettare.