L’elevazione di sanzioni in campo economico e commerciale, come ad esempio l’embargo su alcuni beni, viene oggi vista come un’alternativa a un conflitto aperto, sebbene vi siano alcune sfumature da considerare date dagli strumenti non militari usati per il contrasto diretto a un avversario.

Nel 1919 il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson le definiva come “qualcosa di più tremendo della guerra”. La minaccia, secondo lui, era “un isolamento assoluto che fa rinsavire una nazione proprio come il soffocamento toglie all’individuo ogni inclinazione a combattere. Applica questo rimedio economico, pacifico, silenzioso, mortale e non ci sarà bisogno della forza. È un terribile rimedio. Non costa una vita al di fuori della nazione boicottata, ma esercita su quella nazione una pressione alla quale, a mio giudizio, nessuna nazione moderna potrebbe resistere”.

Si veniva da un conflitto mondiale, il primo, terribile e che ha posto la necessità di usare metodi di coercizione diversi da quelli dell’uso delle armi. In effetti lo strumento economico, prima del periodo interguerra, era considerato né più né meno di uno dei tanti mezzi bellici per costringere una nazione alla resa. Le democrazie liberali hanno però cambiato questa visione delle sanzioni, ritenendole adatte a evitare un vero e proprio scontro armato, ma questa nuova postura si è davvero dimostrata di successo?

Il caso nipponico e quello italiano

Se pensiamo al loro effetto deterrente, possiamo facilmente notare che sono rari in casi in cui hanno davvero funzionato.

Già nel periodo tra i due conflitti mondiali le sanzioni elevate contro l’Italia fascista per la sua aggressione all’Etiopia hanno avuto scarso effetto sulla direzione politica italiana: il governo Mussolini non ha desistito dalla sua aggressione nonostante l’embargo su alcuni beni primari e, anzi, ha continuato la sua politica di potenziamento delle Forze Armate, determinata dalla presenza nel bacino del Mediterraneo di potenze rivali (la Francia prima del Regno Unito) che detenevano un vantaggio strategico in termini, ad esempio, di tonnellaggio complessivo della flotta. Le carenze della filiera logistica italiana, ampiamente dimostrate nel corso della Seconda Guerra Mondiale, sono da imputare più dalla mancanza di una politica industriale da tempo di guerra che fosse in grado di variare le fonti di approvvigionamento, di razionalizzare la produzione trovando valide soluzione alternative, e, soprattutto, dalla dispersione delle poche risorse disponibili. Questo non ha impedito all’Italia mussoliniana di entrare nel conflitto, e, tornando alla guerra in Etiopia, possiamo dire che le sanzioni hanno invero stimolato la produzione interna e galvanizzato il morale della popolazione.

Le risorse italiane, come già detto, erano comunque inadeguate a sostenere un conflitto prolungato, e il motivo delle difficoltà riscontrate quasi da subito sul fronte africano (che tra il 1940 e il 1943 era quello principale con la questione greca risolta ad aprile del 1941 dall’intervento tedesco) non sono imputabili al contrasto britannico sui mari (a fine guerra si calcolò che circa il 98% dei convogli italiani giunse nei porti libici) bensì al fatto che i nostri mercantili partissero dall’Italia “a mezzo carico”.

Anche in questo caso, però, chi scrive ritiene che questa scarsità di risorse fosse dovuta più alla mancanza di un piano industriale efficace e coordinato, piuttosto che all’effetto delle sanzioni risalenti al conflitto in Etiopia.

Un altro esempio significativo della poca capacità di deterrenza delle sanzioni economiche è dato dal caso giapponese: l’invasione della Manciuria nel 1931 e il conflitto con la Cina determinò, a partire dal 1939, l’elevazione di un embargo da parte statunitense su petrolio, ferro, acciaio e altre materie prime insieme al congelamento dei beni nipponici in Regno Unito, Olanda e Stati Uniti. L’obiettivo era quello di strangolare Tokyo costringendola a desistere dalla sua politica aggressiva in Asia. Il risultato fu che il Giappone, a dicembre del 1941, attaccò la base aeronavale statunitense di Pearl Harbor, nelle Hawaii, facendo entrare Washington nella Seconda Guerra Mondiale: senza il petrolio Usa, il Giappone non poteva sopravvivere.

Forse l’esempio nipponico, più di quello italiano, è la dimostrazione di come le sanzioni non abbiano efficacia come deterrente, e anzi spingano il Paese che ne è soggetto a contromosse più aggressive per continuare a perseguire i propri fini politici.

Le sanzioni in tempi recenti

Certamente esistono anche esempi contrari: le sanzioni internazionali a cui è stato sottoposto l’Iraq di Saddam Hussein dopo l’invasione del Kuwait nel 1991, sebbene non abbiano avuto l’effetto di far ritirare Baghdad dal piccolo emirato del Golfo, hanno, nel lungo termine, prostrato l’economia nazionale al punto da logorare profondamente lo strumento bellico iracheno (che nei primi anni ’90 poteva vantare di essere uno dei più numerosi eserciti al mondo), tanto che nel secondo conflitto del Golfo (2003), esso si è praticamente sfaldato in pochissimi giorni sotto il peso della forza della coalizione a guida statunitense. Saddam Hussein, però, non ha mai abbandonato la sua politica di persecuzione delle minoranze etniche presenti nel Paese, e soprattutto le sanzioni non sono state efficaci per effettuare lo sperato cambio di regime.

Passando all’attualità vediamo come le sanzioni internazionali elevate contro la Russia non abbiano fatto desistere Mosca dall’attaccare l’Ucraina il 24 febbraio 2022. La Federazione è sotto embargo da parte occidentale e ucraina, riguardante alcuni beni (come turbine, motori aeronautici/navali e alcune componenti elettroniche), sin dal 2014 per via del colpo di mano in Crimea e della destabilizzazione nel Donbass. L’unico effetto che hanno avuto le sanzioni, fattesi più stringenti con l’invasione in Ucraina, è stato quello di rallentare la produzione bellica nazionale, andando a colpire anche alcuni settori civili (Hi-Tech, automotive ecc).

Proprio il loro perdurare sin dal 2014 ha permesso a Mosca di trovare strade alternative, dando impulso alla produzione interna, sebbene in alcuni settori – come quello dei microchip – essa non sia sufficiente a coprire i fabbisogni nazionali.

La Russia, al pari dell’Iran, si sta rivolgendo anche al mercato nero e all’acquisizione di beni di produzione occidentale tramite Paesi terzi, ma nonostante questo l’industria nazionale fatica a reggere i ritmi imposti dagli eventi bellici.

Soprattutto è da notare come la minaccia di ulteriori e più estese sanzioni internazionali, avanzata dagli Stati Uniti nell’immediato periodo prebellico (dicembre 2021), non abbia avuto alcun effetto nel modificare i piani di Mosca.

Effetto Hybrid Warfare

Occorre ora tornare all’inizio della nostra trattazione per sottolineare un concetto che può aiutare a chiarire meglio l’inefficacia delle sanzioni come deterrente. L’embargo su alcuni prodotti, il congelamento di fondi privati o pubblici all’estero e altri strumenti sanzionatori rientrano nel più ampio concetto di guerra ibrida (Hybrid Warfare), ovvero del contrasto tra entità statuali senza l’utilizzo dello strumento bellico vero e proprio.

Proprio questa postulazione, accettata sia dall’Occidente sia dai suoi avversari (Russia e Cina in primis), fa ritenere le sanzioni un mezzo di scontro diretto, uno dei tanti modi di condurre un conflitto, piuttosto che il tentativo di giungere al suo disinnesco.

Mosca, ad esempio (ma potremmo anche citare Teheran), si sente già in guerra con l’Occidente, e proprio per questo non cederà davanti all’uso delle sanzioni internazionali. Anzi: c’è il rischio, per nulla remoto, che l’esacerbazione delle misure sanzionatorie costringa la Russia a intraprendere strade più aggressive, proprio come avvenuto per il Giappone nel 1941.

Il difetto “genetico” delle sanzioni è anche quello di essere pensate da un sistema liberale per un sistema liberale: quando ci si trova davanti a uno che non è tale (il Giappone prebellico), o che è misto (la Russia o la Cina odierne), esse perdono della loro efficacia come deterrente.

In ultima analisi, e partendo proprio da quest’ultima considerazione, le sanzioni tendono ad alimentare i conflitti se imposte a Stati autoritari/non completamente liberali, piuttosto che fare in modo di evitarli.

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