La biliosa e nevrastenica fase di transizione della Guerra fredda 2.0, che ha accompagnato e caratterizzato il primo semestre di quest’anno, essendo cominciata con il reinsediamento del Partito Democratico alla Casa Bianca, è terminata ufficialmente nella giornata del 16 giugno, quando Vladimir Putin e Joe Biden si sono dati appuntamento a Ginevra per accordarsi sul loro disaccordo.

Il vertice non ha tradito i pronostici più realistici, incluso il nostro: nessuna svolta diplomatica e nessuna fine delle ostilità, ma raggiungimento di una (possibile) pace fredda utile e funzionale ad entrambe le potenze – agli Stati Uniti permetterebbe di concentrare sforzi e risorse sul fronte prioritario, quello cinese, mentre alla Russia garantirebbe una boccata d’aria in una pluralità di aree geopolitiche, in primis Artico, spazio postsovietico e Medio Oriente, nonché l’acquisizione del pivotale ruolo di bilanciere tra i blocchi.

In sintesi, i due capi di Stato non si sono incontrati con l’anelito utopico di seppellire l’ascia di guerra – missione impossibile, anche perché gli Stati Uniti non riconoscono alla Russia il diritto al possesso di sfere d’influenza esclusive –, ma con il duplice obiettivo, intimamente pragmatico, di ripristinare i canali di comunicazione preferenziale e di tratteggiare delle linee rosse invalicabili, nella comune consapevolezza che soltanto l’esistenza di sistemi di dialogo può trasformare escalation inutilmente belligene in crisi produttive.

Il modo in cui si muoveranno le due potenze nell’arena internazionale, mantenendo o tradendo le promesse effettuate in sede di vertice ginevrino, sarà indicativo dei loro propositi e dell’effettivo successo del vertice. E innumerevoli e variegati sono i teatri che dovranno essere monitorati attentivamente – dallo spazio cibernetico alla Siria, dalla cooperazione antipandemica all’Iran, passando per Ucraina e Artico – al fine della captazione di eventuali segni di dissolvimento del meccanismo di bellicosità concertata.

Gli scacchisti muovono le prime pedine

Il risultato principale del vertice di Ginevra, se le parti dovessero realmente rispettare gli impegni presi, potrebbe essere il seguente: nemici come prima, ma non più di prima. Spiegato in modo esemplificativo, per gli Stati Uniti si tratterebbe di continuare ad assistere militarmente l’Ucraina  come dimostrato dal pacchetto di aiuti da 150 milioni sbloccato alla vigilia della Biden-Putin –, ma di smorzarne le attitutidini belliciste e congelarne momentaneamente il processo d’adesione all’Alleanza Atlantica a scopo de-escalativo. Per la Russia, invece, la logica della “cessione con compromesso” potrebbe comportare, tra le altre cose, uno stop temporaneo agli attacchi cibernetici contro le infrastrutture critiche e strategiche degli Stati Uniti e dei loro alleati.

Le prime mosse dei due scacchisti sembrano suggerire l’esistenza di un’effettiva volontà di riavvicinamento tattico – l’ambasciatore russo negli Stati Uniti, Anatoly Antonov, è rientrato a Washington nella giornata del 20, cioè a soli quattro giorni dal vertice, precedendo l’omologo statunitense, Jake Sullivan, il cui rientro a Mosca non è stato ancora programmato –, ma alcuni punti-chiave dell’agenda estera dell’amministrazione Biden potrebbero lavorare in senso contrario all’obiettivo e minare il difficile processo di convergenza.

Nel pomeriggio del 20, mentre Antonov, tornato a Washington, cominciava a mettere su carta le istruzioni ricevute da Mosca, preannunciando entusiasticamente la prossima organizzazione di iniziative volte a favorire il dialogo russo-americano, dalla Casa Bianca giungeva un comunicato avente come destinatario il Cremlino e come oggetto la futura introduzione di ulteriori sanzioni in relazione al caso Navalny.

Curiosamente, ma non sorprendentemente, l’annuncio, che è stato accolto freddamente da Antonov perché ritenuto dannoso ai sensi della distensione , non ha suscitato alcuna animosità particolare nelle alte sfere. Al contrario, dal Cremlino è fuoriuscito un comunicato di replica sottotono, in parte scagionante Biden – la loro approvazione era in discussione da tempo, indi non sarebbe da interpretare come un tradimento delle promesse di Ginevra – e in parte invitante alla morigeratezza – l’auspicio è che vengano implementate selettivamente e con criterio, cioè che non procurino danni tangibili, ma che siano di portata simbolica.

Le perplessità da parte del Cremlino, comunque, permangono e crescono, pur venendo volutamente ed abilmente celate all’ombra di sorrisi, strette di mano e ottimismo di facciata. Perché Antonov non è l’unico a chiedersi le ragioni di nuove sanzioni all’indomani di un vertice indetto per de-escalare le tensioni e ritrovare la strada del dialogo costruttivo, sebbene sia il solo al quale sia stata consentita un’esternazione pubblica. Sanzioni che, sì, probabilmente saranno simboliche, perché concepite più per accontentare l’elettorato Dem liberal-progressista che per autoboicottare gli accordi del 16 giugno, ma che parlano di una nazione – gli Stati Uniti – con la quale stabilire un rapporto incardinato sul mutuo rispetto, sulla valorizzazione delle differenze e sulla non-interferenza pare crescentemente difficile e illusorio, quantomeno per quelle potenze – di ogni dimensione – guidate da agende politico-culturali di stampo conservatore e/o revisionista.

L’agognata pace fredda, in sintesi, potrebbe naufragare sotto il peso delle differenze e delle contraddizioni che rendono Russia e Stati Uniti due potenze antipodiche, con la prima che ha innalzato a dogma il concetto di “democrazia sovrana” e con i secondi che sono votati alla militarizzazione dei diritti umani e all’imperialismo morale. Trovare un equilibrio sarà difficile, ma tentare è storicamente giusto e necessario: in gioco, infatti, v’è la pace mondiale.

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