Quando, nel novembre del 2016, Donald Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti d’America, la Duma di Stato russa ha festeggiato. Per i russi, la vittoria di Trump è stato un avvenimento inaspettato, come per la maggior parte degli americani (Trump incluso). Nell’atmosfera negativa delle relazioni tra Usa e Russia, la campagna elettorale di Trump si era rivelata positiva per il Cremlino in quanto la sua retorica esponeva i difetti del sistema democratico statunitense e l’ipocrisia dell’élite dominante americana.

Alfredo Bosco, Ucraina, regione del Donbass, Spartak, 2016

In particolare, Trump aveva sconfitto Hillary Clinton che, sette anni prima, aveva incoraggiato i giovani cittadini russi a protestare contro un’elezione truccata alla Duma ed esigeva “una Russia senza Putin”. La Clinton non era vista soltanto come la continuazione di Barack Obama, il presidente che aveva insultato Vladimir Putin definendo la Russia “potenza regionale”. A Mosca si temeva che la Clinton volesse imporre una no-fly zone in Siria, dove le forze russe erano operative dal 2015, rischiando di provocare una collisione militare diretta tra le due potenze

Nonostante la sua personalità esuberante, come l’aveva definita il presidente Putin, Trump soddisfaceva le aspettative russe nei riguardi di un presidente americano in grado di metter da parte l’ideologia e adottare una visione realistica delle relazioni internazionali, funzionale a una politica estera basata solo e soltanto sugli interessi nazionali. Si sperava che un leader americano simile sarebbe stato più propenso a una serie di compromessi con la Russia: una specie di “grande occasione“. Il Cremlino sperava che, una volta siglati gli accordi, la sfortunata pagina delle relazioni tra Russia e Stati Uniti, causata dalla crisi ucraina, potesse cambiare; che la questione Ucraina si potesse risolvere in termini accettabili per la Russia; che venissero revocate le sanzioni statunitensi imposte per l’annessione della Crimea e il Donbass e che tra Mosca e Washington riprendesse una collaborazione su basi paritarie in Siria, Afghanistan e Corea del Nord. Per rendere le cose più facili al nuovo presidente degli Stati Uniti, Putin ha deciso perfino di non vendicare il sequestro della proprietà diplomatica russa negli Stati Uniti e l’espulsione di decine di diplomatici russi da parte di Obama.

Anche se l’inchiesta di Mueller ha respinto l’idea di una collusione tra Trump e la Russia, non ha comunque escluso del tutto il coinvolgimento di Mosca nelle elezioni presidenziali del 2016. È lecito supporre che ci sia stata qualche interferenza, dal momento che per i russi era qualcosa che comunque fanno tutti i Paesi, a cominciare dagli stessi Stati Uniti, nonostante lo neghino sempre. Ma è altrettanto lecito presumere che l’impatto di un’eventuale interferenza russa – dalle operazioni di hackeraggio sui social media alle trasmissioni televisive – fosse relativamente poca cosa. Pubblicamente, i membri della Duma russa avranno anche salutato con gioia l’elezione di Trump. E altri funzionari del governo russo si saranno anche congratulati in privato.

Ma la Russia non ha eletto il 45esimo presidente degli Stati Uniti

In un primo momento, a Mosca gli esperti credevano che le accuse, pur comprensibili, da parte dei democratici amaramente delusi, si sarebbero sopite dopo l’ingresso di Trump alla Casa Bianca. E al Cremlino hanno subito cominciato a prepararsi per un primo summit tra Stati Uniti e Russia.

Ben presto, però, il Cremlino è rimasto deluso. Mentre la nomina di Rex Tillerson a Segretario di Stato è stata vista come un segnale di un’emergente politica realista basata sull’interesse nazionale, la rimozione anticipata del generale Michael Flynn dall’incarico di Consigliere per la sicurezza nazionale è stata interpretata come un campanello d’allarme. La speranza di un summit tra Putin e Trump si è infranta. Il loro primo incontro, a margine del G20 di Amburgo nel luglio 2017, ha dato risultati contrastanti. Gli aspetti negativi hanno ben presto superato quelli positivi. Putin era riuscito a prolungare l’incontro con il suo omologo statunitense per più del doppio della durata prevista dal programma. Ma è stata proprio la reazione pubblica contro la presunta collusione fra Trump e la Russia a bloccare i progressi raggiunti nei colloqui privati tra i due leader. Il risultato della missione di Amburgo è stato duplice. Da un lato, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato una serie di sanzioni molto più dure di qualunque disposizione mai ordinata da Obama. Dall’altro lato, per la prima volta dalla crisi ucraina, le sanzioni sono state addirittura iscritte nella legislazione statunitense. E il presidente Trump, sapendo di non poter scavalcare il voto quasi unanime a sostegno delle sanzioni, non ha avuto altra scelta che firmare la nuova legge.

Così, nell’agosto del 2017, nelle relazioni tra Usa e Russia si è consolidata una nuova realtà. Le politiche americane verso Mosca non erano più nelle mani della Casa Bianca, ma in quelle del Congresso dove, per la prima volta, si erano coalizzati contro la Russia entrambi i partiti principali. Per molti democratici, punire la Russia era diventato un modo per impedire al presidente repubblicano di svendere gli interessi degli Stati Uniti a un Paese straniero. Per i repubblicani, invece, mostrarsi duri con la Russia era un espediente per farsi assolvere da ogni accusa di collusione tra la Casa Bianca e il Cremlino. La Russia – che nei decenni della Guerra fredda era stata un implacabile nemico ideologico, un formidabile rivale geopolitico e una colossale minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti – aveva smesso di essere una questione di politica estera per diventare una specie di pallone da football politico da prendere a calci da entrambe le squadre di casa.

Questa è la situazione che ci troviamo davanti ancora oggi. Contro ogni previsione, l’ennesimo tentativo di Putin di instaurare un rapporto di lavoro con Trump durante il loro sfortunato incontro a Helsinki nel luglio 2018 si è rivelato un disastro ancora peggiore della riunione di Amburgo dell’anno precedente. Il rifiuto della Casa Bianca di tenere un altro summit con il presidente russo a margine del G20 in Argentina nel novembre 2018 ha definitivamente convinto Putin dell’inutilità di ogni ulteriore tentativo. Con riluttanza, ha dovuto rinunciare. Allo stato attuale, l’agenda Usa-Russia si è ridotta a un solo punto: evitare una collisione militare diretta tra le forze armate dei due Paesi, magari a causa di qualche incidente, per esempio in Siria, o in seguito a un’escalation del conflitto in Ucraina orientale. Nel frattempo, le relazioni tra i due Paesi continuano ad aggravarsi. Nel breve periodo, è probabile che peggiorino prima di deteriorarsi ancora di più.
Guardando al futuro, tutto dipenderà dalle politiche interne di entrambi i Paesi. Le elezioni americane del 2020 segneranno la prima tappa, foriera di notevoli implicazioni. Anche se rieletto, Trump difficilmente sarà in grado o perfino disposto a stabilizzare i rapporti con la Russia. Dal canto suo, un candidato democratico eventualmente vincente, partirebbe con tutta probabilità da un approccio ostile verso la Russia e potrebbe affidarsi a una strategia diversa dal comminare sempre più sanzioni a Mosca.

In Russia, le elezioni non sono programmate fino al 2024 e comunque la configurazione del potere dopo la scadenza del mandato di Putin non è ancora chiara. Nel lungo termine, la fine dell’era Putin potrebbe portare a una rivalutazione delle politiche a tutti i livelli, insieme a un importante riallineamento dei gruppi elitari in competizione fra loro, accompagnati da un certo grado di irrequietezza sociale interna. Entrambi i Paesi saranno per lo più impegnati nelle loro questioni interne, ma useranno la politica estera come uno strumento o una risorsa politica. Ci vorrà molto tempo prima che America e Russia ritrovino una condizione di normalità nelle loro relazioni. La cosa più importante è che mantengano fredda la guerra attuale, proprio come fecero con quella precedente.

Foto di apertura di Alfredo Bosco, Ucraina, regione del Donbass, Donetsk, 2014