Erano in migliaia anche lo scorso sabato 14 gennaio sotto la pioggia battente di piazza Habima a Tel Aviv, ma anche a Gerusalemme e Haifa, a manifestare contro il progetto di riforma del sistema giudiziario proposto dal governo di Benjamin Netanyahu entrato in carica solo il 29 dicembre scorso. Un passo che, a detta dei critici, potrebbe segnare un punto di non ritorno per l’assetto democratico del Paese, che in base al disegno presentato dal ministro della giustizia Yariv Levin comprometterebbe il sistema dei pesi e contrappesi che caratterizzano la democrazia stessa.

Per il secondo sabato consecutivo le strade di Tel Aviv erano gremite, ma contro gli stimati 30 000 partecipanti della scorsa settimana, i numeri riportati dalla polizia parlano di almeno 80 000 manifestanti che dopo la fine dello shabbat si sono riversati in piazza, nonostante il meteo avverso, con cartelli che recitavano “Questa è la fine della democrazia” e “Netanyahu ministro del crimine”. Non ci sono stati disordini, ma il ministro della sicurezza Ben Gvir ha voluto redarguire i manifestanti: mentre dava istruzioni alla polizia di essere “sensibile” e permettere alla protesta di procedere pacificamente, prometteva allo stesso tempo una risposta dura ad ogni forma di vandalismo e violenza.

La proposta e l’opposizione

La revisione del sistema giudiziario è stata presentata dal premier come punto centrale della sua agenda. La proposta implica un ridimensionamento dei poteri della Corte Suprema, le cui decisioni potrebbero essere rovesciate da un voto di maggioranza semplice della Knesset. I giudici della Corte, che secondo Levin negli ultimi anni hanno esercitato troppo potere per essere un organo non eletto, verrebbero appuntati dal parlamento, che influenzerebbe anche l’indipendenza dei consulenti legali dell’organo. La Corte verrebbe inoltre privata del potere di bloccare decisioni del governo giudicate discriminatorie e/o non democratiche, e il governo avrebbe la facoltà di selezionare i giudici tramite una commissione di elezione giudiziaria che verrebbe presieduta dal ministro della Sicurezza.  

La proposta di legge è percepita dai critici come un tentativo di Netanyahu o dei suoi partner di coalizione per spianare la strada a leggi che lederebbero i diritti di atei, liberali e minoranze. Ostacolando il principio di separazione dei poteri e spogliando la Corte del potere di bloccare un disegno di legge giudicato illegale, esso minaccia infatti di erodere le fondamenta di quella che più volte è stata descritta come “l’unica democrazia Mediorientale”.

(Foto: EPA/ABIR SULTAN)

Numerosi oppositori si sono pronunciati contro la riforma, dalla piazza e non. Si è fatta notare l’assenza del capo dell’opposizione Lapid che, parlando al suo partito Yesh Atid e invitandolo a partecipare alla protesta, ha dichiarato che “questa non è una riforma ma un cambio di regime, che taglia Israele fuori dalla cerchia degli Stati liberali”, ma poi ha scelto di non presenziare alle dimostrazioni perché non voleva distorcere la loro natura rendendola politica.

Le Monde ha invece riportato la dura condanna espressa dal palco da Ayala Procaccia, ex membro della Corte Suprema d’Israele: “assistiamo all’inizio di una nuova era con una nuova definizione di democrazia, non più basata sui valori, ma una democrazia troncata, che dipende totalmente dal volere degli elettori”. Sempre dalla piazza Benny Gantz, leader del partito d’opposizione Unità Nazionale, ha invitato i connazionali a “prendere la bandiera israeliana in una mano, l’ombrello nell’altra e venire a proteggere la democrazia e la legge nello Stato d’Israele” e ha preso parte al corteo in maniera informale.

Da parte sua, Netanyahu ha descritto la riforma come un “ripristino dell’equilibrio tra i tre rami di governo”. Levin ha invece sostenuto la necessità di tale riforma affermando che l’”attivismo giuridico” della Corte ha deteriorato la fiducia pubblica nel sistema giudiziario, rendendo impossibile per l’esecutivo governare efficacemente. Parallelamente, esponenti del partito del premier evidenziano la non rappresentatività di queste proteste, ricordando che in confronto alle decine di migliaia presenti in piazza sabato sera, alle elezioni di solo due mesi e mezzo fa in milioni si sono presentati alle urne.

La democrazia in pericolo

Le proteste di queste settimane dimostrano quanto la questione sia rilevante per la cittadinanza. Il dibattito si è animato anche tra gli intellettuali israeliani, facendo emergere opinioni diverse sullo stato di salute della democrazia in Israele. L’autorevole opinione dell’ex presidente della Corte Aharon Barak avverte che la riforma pianificata rimetterebbe tutti i poteri in mano al primo ministro, lasciando i cittadini inermi davanti alla rimozione di uno qualsiasi dei loro diritti, e marcherebbe l’inizio della fine dello Stato moderno di Israele. Il giurista ricorda che in assenza di un testo costituzionale organico, di una carta dei diritti o di una seconda camera, nessuno li proteggerà dalla maggioranza politica del giorno, e non ci sarà nessuna Corte a cui rivolgersi.

Si oppone a questa lettura del sistema democratico israeliano il giornalista anglo-israeliano Anshel Pfeffer, autore di una biografia di Netanyahu nel 2018. Pfeffer sottolinea diversi elementi di forte democrazia nello Stato d’Israele, dalla robustezza del processo elettorale e l’alta affluenza alle urne, al fatto che i risultati delle elezioni non sono mai stati contestati, fino a ricordare che il Paese ha mandato in prigione un primo ministro (Olmert) e poi un presidente (Katsav) senza colpi di stato, e che la libertà di stampa non è mai stata osteggiata.

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