Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump sta conducendo una sua personale battaglia interna contro quei membri dell’establishment che hanno dimostrato di opporsi alla sua politica estera, di fatto più aperta al dialogo verso quegli avversari globali rappresentati da Russia, Cina, Corea del Nord e Iran.
Trump, anche se sembra porsi sulla stessa linea dei suoi predecessori, ha una precisa strategia figlia della dottrina “America First”. Gli Stati Uniti stanno occupandosi direttamente di quei punti caldi che sono fondamentali per mantenere l’egemonia economico/militare globale e nello stesso tempo stanno delegando il compito di controllare gli altri ai loro alleati. Così Washington è tornata attiva in Medio ed Estremo Oriente alzando il livello dello scontro con Cina, Corea del Nord ed Iran per cercare di strappare accordi più favorevoli per la politica Usa.
Nel contempo non ha mai smesso di cercare il dialogo: la Casa Bianca ha tenuto canali aperti con Teheran, con Pechino, ma anche con Mosca dimostrando di saper usare sapientemente il “bastone e la carota” senza mai vacillare negli impegni presi in campagna elettorale: far ritornare gli Stati Uniti protagonisti sul palcoscenico globale dopo gli sciagurati anni di amministrazione Obama che hanno visto un avanzamento delle potenze avversarie a causa della sua politica di generale “disimpegno” da alcuni settori vitali proprio come l’Estremo Oriente.
Trump sta utilizzando una tattica, che si può definire strategia, ben precisa nella risoluzione dei contenziosi “bollenti” internazionali, e che si può definire “carta coreana” in quanto messa in atto per prima proprio nei confronti della Corea del Nord: l’escalation militare mantenendo aperti i canali diplomatici propedeutici ad un accordo qualora l’altra parte dimostri l’apertura a trattare. Ha funzionato – sebbene ora si stia assistendo ad una impasse – con Pyongyang, sta funzionando con l’Iran.
In questa sua politica, però, Trump è stato avversato da componenti dell’establishment facenti anche parte del suo stesso staff. Dei cosiddetti “falchi” che non condividono l’approccio dialogante della Casa Bianca e che premono affinché gli Stati Uniti perseguano una linea dura verso i suoi avversari.
La reazione del tycoon è stata dura se pur dando sempre possibilità di ravvedimenti. Trump ha silurato quelle figure, anche di spicco, del suo esecutivo che hanno dimostrato di non condividere la sua weltanschaaung.
Il deep state silurato da Trump
La lista delle personalità dell’esecutivo americano che sono state silurate dal presidente americano è lunga: John Bolton, consigliere per la Sicurezza nazionale, è solo l’ultimo nominativo.
Bolton ha lasciato il suo incarico dopo che il capo della Casa Bianca gli ha intimato di dimettersi. Il presidente ha parlato della fine del rapporto col suo consigliere per la Sicurezza nazionale in un tweet molto chiaro: “Ieri sera ho informato John Bolton che i suoi servizi non sono più necessari alla Casa Bianca. Ero in forte disaccordo con molti dei suoi suggerimenti, così come altri nell’amministrazione, e quindi ho chiesto a John le sue dimissioni, che mi sono state presentate stamattina”.
Il primo a finire sotto la scure trumpiana è stato Micheal Flynn, un altro consigliere per la Sicurezza nazionale, “dimessosi” dopo soli 23 giorni di mandato. Il generale Flynn è stato vittima soprattutto del “Russiagate” e a dicembre, sarà incriminato dal procuratore speciale Robert Mueller per aver reso “volontariamente e consapevolmente” “dichiarazioni false, fittizie e fraudolente” all’Fbi riguardanti le sue conversazioni con l’ex ambasciatore russo a Washington, Sergei Kislyak (Adnkronos).
Il 30 gennaio 2017, Trump rimuove la Attorney General ad interim, Sally Yates a causa della sua opposizione alle sue politiche sull’immigrazione. L’ultima superstite dell’era Obama paga il mancato sostegno al “Muslim Ban” presidenziale.
Il 30 marzo, dopo appena 70 giorni di lavoro, il vice capo dello staff della Casa Bianca, Katie Walsh, lascia per andare a lavorare per un gruppo di sostenitori del Partito Repubblicano.
Il 9 maggio Trump licenzia James Comey, direttore dell’Fbi. La motivazione ufficiale è che “Non stava facendo un buon lavoro” ma l’ombra del “Russiagate” si allunga anche su questa decisione. Il 30 maggio esce di scena Mike Dubke, responsabile della Comunicazione della Casa Bianca. Il rapporto con il presidente non decolla e dopo 3 mesi arrivano le conseguenze. Il 6 luglio se ne va Walter Shaub, il numero uno dell’Ufficio etico federale. Impossibile trovare un punto d’incontro con Trump.
La lista è davvero lunga: tra portavoce, assistenti, segretari, capi dello staff ci sono altri 27 nominativi che vengono messi da parte, per un motivo o per un altro, dal presidente americano o che si dimettono spontaneamente. Tra di essi spiccano alcuni nomi di primo piano: il 18 agosto del 2017 Steven Bannon cessa di essere lo stratega della Casa Bianca, l’uomo che era da tutti considerato il braccio destro di Trump viene messo da parte; a marzo del 2018 il presidente destituisce il segretario di Stato Rex Tillerson che viene sostituito dal capo della Cia Mike Pompeo; il 22 marzo dello stesso anno Trump annuncia che la sostituzione del suo consigliere per la Sicurezza nazionale McMaster, con il quale si sarebbe scontrato ripetutamente, nominando proprio l’ex ambasciatore Usa all’Onu John Bolton; il 20 dicembre dello scorso anno è la volta di James “Mad Dog” Mattis, segretario alla Difesa reo di essere entrato in collisione con Trump per essersi opposto alla sua linea troppo poco dura verso la Russia, la Cina e l’Iran.
Insomma in due anni di governo il presidente Trump ha portato avanti una vera e propria lotta interna a quello che viene definito il “deep state”, ovvero quella parte di establishment – burocratica e non – che si oppone e cerca di frenare la politica dell’esecutivo per una ragione o per un altra.
Il fil rouge di questo agire è oltremodo chiaro: eliminare le resistenze dei falchi, anche interni al partito repubblicano, che mal digeriscono la “linea morbida” di Trump in politica estera e che più di una volta hanno cercato lo scontro frontale a livello diplomatico coi Paesi che ritengono avversari degli interessi Usa.
Una rivoluzione interna che non finirà presto
Siamo convinti che queste “epurazioni” all’interno dell’amministrazione americana siano solo l’inizio di un’ampia strategia che coinvolgerà anche altri funzionari dello Stato.
Esistono all’interno dei servizi di intelligence (Nsa, Cia e Dia) e in alcuni settori del Dipartimento di Stato delle resistenze alla politica trumpiana. Non è un mistero che i servizi segreti americani abbiano più volte sottoposto all’attenzione del presidente rapporti alquanto allarmistici sulla situazione internazionale con particolare riguardo alla Russia e alla Cina che spesso sono stati volutamente ignoranti dalla Casa Bianca perché ritenuti controproducenti.
Ai direttori delle varie agenzie è rimasta quindi solo l’arma del cercare di gettare discredito sull’operato del presidente. Trump, ad esempio, è stato accusato di un’uso “spensierato” delle informazioni derivate dall’intelligence: pochi giorni fa a seguito del fallito lancio di un satellite iraniano Trump aveva twittato una fotografia che riprendeva la colonna di fumo che si elevava dalla piazzola di lancio affermando che “gli Stati Uniti non sono coinvolti nel catastrofico incidente occorso durante le preparazioni finali del lancio del Safir SLV al sito di lancio Semnan 1 in Iran. Faccio all’Iran i migliori auguri per determinare cosa sia successo”.