Sta crescendo un sentimento di minaccia percepita nei confronti delle grandi piattaforme digitali come Google, Uber, Amazon e Facebook. Solo lo scorso 30 agosto 2017 usciva un editoriale sul The Guardian firmato da Nick Srnicek. Il giornalista poneva l’enfasi sul bisogno di “nazionalizzare” al più presto questi colossi mondiali altrimenti “se non subentriamo ai monopoli delle piattaforme digitali di oggi, rischiamo di lasciargli proprietà e controllo delle infrastrutture-base della società del XXI secolo”.

Per comprendere meglio l’effettiva pericolosità di queste piattaforme digitali globali occorre spostarci verso occidente, negli Stati Uniti, laddove la maggior parte di queste realtà sono nate e sono riuscite a svilupparsi. Proprio lì infatti alcuni recenti avvenimenti sembrano dare ragione all’editoriale del The Guardian.





Un licenziamento sospetto

Il portale di giornalismo investigativo americano The Intercept ha infatti pubblicato un’analisi molto dettagliata sul recente licenziamento di Barry Lynn. Chi è costui? Barry Lynn è uno dei membri più anziani del noto think tank americano New America Foundation. Un’organizzazione privata che sulla carta si occupa di ricerca in diversi settori (politica, sicurezza, economia ecc.), ma che all’occasione si può trasformare in un potente strumento di lobbying sia al Congresso che al Senato. Barry Lynn è stato estromesso da questo think tank perché “non più in linea con gli standard” della fondazione.

Cos’ha combinato di così grave quest’uomo? Secondo The Intercept Barry Lynn avrebbe organizzato lo scorso giugno 2016 un programma di conferenze dal titolo “Open Market Initiative”. L’argomento trattato è stato il pericolo di un monopolio crescente esercitato da Google. Una critica dunque contro il colosso informatico reo di esercitare un monopolio di mercato. Inoltre lo stesso Barry Lynn avrebbe pubblicato una nota in cui applaudiva la multa inflitta dall’Unione europea (2,7 miliardi di dollari) proprio ai danni di Google per violazione della legge sull’anti trust.

Google dietro il licenziamento di Barry Lynn?

Ora le mail pubblicate da The Intercept mostrano piuttosto chiaramente come il licenziamento di Barry Lynn possa essere stato conseguenza di una pressione fatta da Google sul think tank. Azione di pressione che sarebbe confermata dall’ingente finanziamento (21 milioni di dollari) fatto da Google proprio in favore della stessa Fondazione negli ultimi anni. Questa vicenda, oltre a confermare la tesi dell’editoriale del The Guardian, ci mostra due pericoli per la società americana.

Da una parte l’ormai solida realtà di fondazioni private che svolgono azione di lobbying in Senato e Congresso per conto di aziende private. Fatto che esautora di qualsiasi valore il principio democratico di governo della maggioranza, dove invece a farla da padroni sono gruppi minoritari. Dall’altra la repressione di qualsiasi forma di dissenso anche interna, come il licenziamento di Barry Lynn dimostra. Uno scenario ambiguo che, sempre secondo The Intercept potrebbe continuare a peggiorare.

Il legame tra Uber e il New York Times

É dello scorso martedì infatti l’annuncio da parte della multinazionale Uber dell’assunzione di Dara Khosrowshahi come nuovo CEO. Questi non solo infatti è stato capo della compagnia di viaggi Expedia, ma è ancora attuale membro del consiglio direttivo della “Times Company”, società editrice del New York Times. The Intercept sottolinea come lo stesso giornale newyorkese nel riportare la notizia abbia omesso che  Khosrowshahi sia un editore del giornale stesso. La questione, legittima, che solleva dunque The Intercept è se un giornale che in passato ha denunciato delle violazioni di Uber nel mondo, possa ora continuare a indagare in maniera imparziale sulla stessa compagnia.

Il giornale investigativo riporta poi come il consiglio direttivo del New York Times sia già in realtà pieno di “conflitti d’interesse”. Tra i membri vi sarebbe infatti il vice presidente del colosso assicurativo AIG, il CEO di Pandora, l’ex vice-presidente di Facebook e molti altri ancora. Se consideriamo dunque l’influenza di Google sul Senato del Paese più ricco e importante al mondo e il ruolo di Uber, e di altre aziende, all’interno di uno dei giornali più influenti al mondo, allora la questione posta dall’editoriale del The Guardian diventa più che legittima, impellente. 

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