Una serie di email riguardanti Hillary Clinton nel suo periodo come Segretario di Stato della prima amministrazione Obama (2009-2013) e recentemente rese pubbliche dalla presidenza Trump gettano nuove ombre sui rapporti tra i “Democrats” e l’organizzazione islamista radicale dei Fratelli Musulmani, in particolare dal periodo precedente allo scoppio delle cosiddette “Primavere Arabe” fino alla caduta in Egitto dell’esecutivo islamista di Mohamed Morsy nell’estate del 2013.
I documenti rilasciati hanno inoltre evidenziato stretti rapporti tra l’amministrazione Obama e l’emittente televisiva qatariota Al Jazeera, notoriamente vicina alle posizioni dei Fratelli Musulmani; non è del resto un caso che il Qatar resta il principale sponsor mediorientale dell’organizzazione islamista radicale, assieme alla Turchia.
Il quadro che emerge dalle email e che conferma una chiara simpatia dell’amministrazione Obama per i Fratelli Musulmani, visti all’epoca come nuova alternativa democratica ai regimi come quelli di Gheddafi, Mubarak, Ben Ali e Bashar al-Assad non è certo una sorpresa, visto che tali posizioni erano già note da anni. Una politica estera poi rivelatasi fallimentare su tutta la linea e fortemente sostenuta da alcuni consiglieri per la sicurezza nazionale già coinvolti in prima linea nelle politiche di apertura di Washington nei confronti del regime iraniano e di Cuba.
Un’inversione di marcia sulla politica estera mediorientale
Per decenni gli Stati Uniti avevano politicamente, economicamente e militarmente sostenuto il regime di Hosni Mubarak in Egitto e quello di Ben Ali in Tunisia con il chiaro obiettivo di garantire la stabilità in un’area caratterizzata da costanti tensioni. I due Paesi non avevano soltanto svolto un ruolo fondamentale nell’arginare derive filo-sovietiche durante la Guerra Fredda, ma erano anche alleati fondamentali nella cosiddetta “war on terror”, come dimostra ad esempio il caso di Abu Omar, il predicatore islamista radicale egiziano fatto sparire nel 2003 a Milano, nei pressi della moschea di viale Jenner, da una cellula della Cia e ricomparso il giorno dopo in un carcere dei Mukhabarat egiziani.
Il progressivo peggioramento delle condizioni socio-economiche e il malcontento popolare in questi Paesi hanno però portato l’amministrazione Obama a credere che fosse addirittura necessario un “regime-change“, ovviamente in nome della democrazia e ciò nonostante il precedente fallimento iracheno. E’ chiaro che senza un’alternativa politica forte ed affidabile non ha alcun senso lanciarsi in iniziative del genere; a Washington però c’era chi sosteneva con grande convinzione che l’unica strada percorribile fosse quella del sostegno ai Fratelli Musulmani, indicati come forza politica conservatrice e certamente religiosa ma “lontana da quell’estremismo che ne aveva caratterizzato una sua prima fase”. Una delle giustificazioni spesso puerilmente fornita da certi analisti per garantirne l’affidabilità era il fatto che il leader di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, avesse lasciato la Fratellanza per fondare la Egyptian Islamic Jihad e poi co-fondare al-Qaeda. Ciò che gli analisti del Dipartimento di Stato non avevano però realizzato è che al-Zawahiri non aveva lasciato i Fratelli Musulmani perché non ne condivideva i principi ideologici, ma prettamente per motivi legati al modus-operandi. L’obiettivo dell’attuale leader di al-Qaeda era sempre e comunque quello di divulgare le idee di Sayyid Qutb (pilastro portante dei Fratelli Musulmani assieme al fondatore Hassan al Banna) ma prettamente attraverso il jihad, la lotta armata. Esiste infatti un comun denominatore chiamato “Sharia” che allinea l’ideologia di Fratelli Musulmani, al-Qaeda, Isis, Hamas, così come quella di gruppi non più attivi come Gia, Gamaa al-Islamiyya ed Imrat Kavkaz. Ciò che cambia è il modus operandi per raggiungere il potere e i Fratelli Musulmani avevano da tempo capito che la conquista graduale del tessuto sociale, economico e politico poteva richiedere più tempo ma era anche plausibilmente più sicura e proficua nel medio-lungo termine.
I contatti tra Washington ed esponenti dei Fratelli Musulmani si sono così intensificati negli anni precedenti allo scoppio delle Primavere Arabe, con questi ultimi che improvvisamente si presentavano come “sostenitori della democrazia in Medio Oriente” ed unica alternativa alla tirannia dei regimi al potere. Gli islamisti devono essere stati talmente convincenti che a Washington hanno addirittura pensato di sdoganarli anche in Paesi dove gli Usa non avevano alcun controllo e cioè in Libia e Siria, con l’obiettivo di rovesciare Gheddafi e Bashar al-Assad. Non è certo un caso che proprio in questi due Paesi il piano dell’amministrazione Obama non ha funzionato e le drammatiche conseguenze sono ancora visibili oggi.
In Egitto le cose non sono andate molto meglio, con l’esecutivo dei Fratelli Musulmani, guidato da Mohamed Morsy, che ha battuto il record per quanto riguarda i provvedimenti legali nei confronti di giornalisti e personaggi legati ai media, come denunciato dalla Arabic Network for Human Rights Information. Secondo tale rapporto il numero di denunce sarebbe di quattro volte maggiore rispetto all’era Mubarak e ventiquattro volte più grande rispetto a quella di Sadat. Considerando che Mubarak è rimasto al potere per trent’anni, Sadat per undici anni e Morsy soltanto per un anno, i numeri parlano chiaro. Durante l’anno di governo Morsy si è inoltre verificato il primo pogrom della storia d’Egitto nei confronti degli sciiti e una serie di attacchi contro i cristiani copti che hanno trascinato la popolazione nel terrore.
E’ plausibile che a Washington non fossero al corrente della reale identità del loro nuovo interlocutore politico? Difficile crederlo, così come risulta difficile che a Londra non sapessero di cosa realmente si occupasse l’organizzazione dei Fratelli Musulmani, come affermato nel 2014 dall’allora Primo Ministro, David Cameron, che ordinò anche un’indagine per capire se la Fratellanza fosse veramente estremista. L’anno prima, precisamente il 17 maggio (2013), Cameron aveva ricevuto a Londra il portavoce dei Fratelli Musulmani egiziani, Gehad el-Hadad, rinnovando il sostegno a quel governo Morsy che verrà poi rovesciato due mesi dopo da una rivolta popolare sostenuta dall’esercito. Londra era del resto nota all’epoca come la capitale europea della Fratellanza.
Quei nomi che spuntano nella mail della Clinton
Nelle mail dello staff della Clinton presso il Dipartimento di Stato emergono una serie di nomi sui quali è bene soffermarsi, a partire da quelli inseriti in una corrispondenza che fa riferimento a un viaggio in Qatar dell’ex Segretario di Stato per incontrare i vertici di al-Jaazera e l’ex Primo Ministro qatariota Hamad bin Jassim Al Thani. Con la Clinton viaggiavano infatti Kitty Di Martino (Chief of Staff for Public Diplomacy and Public Affairs), Mark Davidson (diplomatico con 28 anni di esperienza presso il Dipartimento di Stato ed ora in Giappone dove lavora nel settore privato), Eric Schoennauer (all’epoca senior communications advisor presso il Dipartimento di Stato) e Joe Mellot (Foreign Service Officer).
Andando più a fondo, sono emersi dettagli interessanti sugli ultimi due nominativi: Eric Schoennauer, all’epoca responsabile per la pianificazione e lo sviluppo della strategia comunicativa e per la collaborazione col Dipartimento della Difesa, laureatosi a West Point, prima di accedere al Dipartimento di Stato ha servito nel 3rd US Infantry Regiment e dal febbraio del 1998 al giugno 2003 (con incarico in Iraq nel settore informativo militare) presso lo US Army Special Operation Command dove ha operato nel 3rd Special Forces Group e nel 6th Psychological Operations Battalion, quello che si occupa delle operazioni psicologiche, con tanto di servizio nei Balcani e in America Centrale. L’anno successivo al viaggio della Clinton a Doha, Schoennauer ricomparirà a Bagram, Afghanistan, come Information Coordinations Operator. Joe Mellott verrà invece in seguito assegnato all’ambasciata statunitense in Libia in qualità di Public Affairs Officer e alla Nato come Executive Officer per l’ambasciatore Usa.
Un altro nominativo che compare nel programma del viaggio della Clinton a Doha nel 2010 è quello di Dana Shell Smith, all’epoca in servizio presso il Media Regional Hub di Dubai. Nel luglio del 2014 la Smith veniva nominata ambasciatrice Usa in Qatar e nell’aprile del 2015 scriveva un articolo per il “Council of American Ambassadors” dove elogiava gli sforzi di Doha nel contrastare Gheddafi e Bashar al-Assad, nel lavorare con “l’opposizione siriana” e a favore della “transizione democratica in Egitto”. Come se non bastasse, la Smith lodava il sostegno a ciò che lei definisce “opposizione islamica moderata…in Egitto, Tunisia, Libia e territori palestinesi”. Quanto l’Fjp di Morsy in Egitto sia risultato “moderato” lo si è visto, tant’è che il governo islamista “democraticamente eletto” si è trasformato in un regime ed è crollato dopo appena un anno. In Libia la “moderazione” dei gruppi islamisti è ancora oggi sotto gli occhi di tutti, mentre nei territori palestinesi la cosiddetta “opposizione islamica” ha un solo nome, Hamas, gruppo nella lista nera delle organizzazioni terroristiche di Ue, Usa e Israele. Possibile che la Smith non si fosse resa conto dei danni fatti dalla cosiddetta “opposizione moderata islamica” in Egitto, Siria, territori palestinesi e Libia?
Durante il viaggio a Doha, la Clinton e il suo staff si incontrarono con i vertici di al-Jazeera, tra cui il direttore Wadah Khanfar; l’emittente televisiva qatariota è ben nota per aver propagandisticamente sostenuto i gruppi islamisti attivi in Siria ed Egitto. E’ bene ricordare che il leader spirituale dei Fratelli Musulmani, Yusuf Qaradawi, aveva invocato il jihad in Siria e contro l’esecutivo al-Sisi in Egitto proprio da Doha, dove faceva base.
Altri due nominativi che spuntano poi in relazione alla Smith sono quelli di Ben Rhodes e Jake Sullivan, sempre in relazione ai rapporti tra Usa, Qatar e Fratelli Musulmani, come già illustrato dal Jerusalem Post. Il primo ha operato per l’amministrazione Obama come National Security Advisor for Strategic Communicatuions ed ha svolto un ruolo di primo piano nei negoziati segreti per la normalizzazione dei rapporti con Cuba, interfacciandosi direttamente col figlio di Raul Castro, Alejandro. Un piano non molto gradito all’opposizione cubana della Florida.
Diverse fonti indicano inoltre a Rhodes come autore del discorso tenuto da Obama il 4 giugno 2009 al Cairo e denominato “Un nuovo inizio”, col quale Washington ha di fatto aperto le porte ai Fratelli Musulmani in Egitto e persino come colui che avrebbe consigliato a Obama di ritirare il sostegno a Mubarak. Il nome di Jake Sullivan compare invece in relazione ai negoziati segreti tenuti dall’Amministrazione Obama con il regime iraniano (almeno cinque gli incontri ai quali veniva segnalata la sua presenza) in relazione al programma nucleare ed ha anche svolto un ruolo di primo piano nella campagna di Hillary Clinton alle elezioni presidenziali del 2016, poi vinte da Donald Trump.
Cosa potrebbe succedere alla politica estera statunitense e in particolare a quella diretta in Medio Oriente in caso di vittoria di Biden? Il candidato Dem ha recentemente affermato che in caso di vittoria toglierà il sostegno ad al-Sisi, definito “il dittatore preferito da Trump” e con tanto di tweet. Una mossa che aprirebbe nuovamente le porte agli islamisti radicali. E’ plausibile un cambio di linea del genere? Certamente, come evidenziato da Nahal Toosi, in quanto nonostante l’elevato numero di consiglieri per la politica estera e la sicurezza, Biden punta a fare affidamento esclusivamente su una ventina di esperti con lungo curriculum e parecchi dei quali già operativi durante gli otto anni di amministrazione Obama. In poche parole, una vittoria di Biden potrebbe risultare disastrosa per la stabilità del Medio Oriente, come già successo con quelle cosiddette “Primavere Arabe” che di primaverile hanno mostrato poco o nulla.