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Joe Biden ha recentemente promosso l’introduzione di nuove sanzioni contro Cuba dopo gli scontri che hanno animato negli scorsi giorni l’isola caraibica, teatro di violente proteste di piazza e di grandi tensioni politiche connesse alla crisi sistemica dell’economia e della società del Paese. Le sanzioni sono state promosse richiamandosi al Global Magnitsky Act, costruito in funzione anti-russa, e rappresentano la prima risposta politica di Biden dopo lo scoppio delle manifestazioni a Cuba per la carenza di cibo e medicinali.

La Casa Bianca ha spiegato in un comunicato che le sanzioni saranno “solo l’inizio” e colpiranno i vertici del ministero dell’Interno e delle forze armate di L’Avana, ritenuti i principali responsabili delle repressioni contro i manifestanti che si oppongono al governo castrista. Ma nel comunicato spicca in particolar modo la durezza dei toni utilizzati da Biden per esprimere il suo sostegno ai “valorosi cubani” che si sono riversati nelle strade per contrastare “62 anni di repressione del regime comunista”. Toni che richiamano all’ora più buia della contrapposizione tra Washington e L’Avana, riportano alla luce un lessico da Guerra fredda che, per la sua riproposizione nel corso dell’era Trump, Biden e i democratici avevano più volte stigmatizzato, segnalano di fatto che quanto scrivevamo nelle scorse giornate sulla mancanza di una strategia per l’America Latina da parte degli Usa è confermato dai fatti. E che anche nell’era Biden gli States ragionano nel loro ex “cortile di casa” con schemi superati dalla storia.

Storia dell’embargo cubano

Cuba è sotto sanzioni statunitensi da poco dopo la vittoria dei rivoluzionari di Fidel Castro contro le truppe filo-Usa di Fulgencio Batista del 1959. La presidenza Eisenhower impose le prime restrizioni commerciali nel 1960 e due anni dopo, su volontà di John Fitzgerald Kennedy, scattò a poche settimane dalla crisi dei missili con l’Unione Sovietica il bloqueo, l’embargo contro L’Avana. Curiosamente e emblematicamente, Kennedy non giustificò l’embargo contro il governo di Castro come una ritorsione per il danno economico provocato al Paese dagli espropri di terreni di proprietà di imprese, società agricole e cittadini statunitensi, come del resto sarebbe stato legittimato a fare dal Foreign Assistance Act del 1961.

L’atto presidenziale giustificò l’embargo a Cuba e l’avvio di una soffocante fase di isolamento dell’isola dai mercati statunitensi ed occidentali focalizzandosi sull’allineamento ideologico del governo di Cuba al comunismo sino-sovietico. Questo è il vero e proprio peccato originale di una politica di blocco che per decenni non ha fatto altro che portare Castro su posizioni radicalmente critiche degli Stati Uniti, ha ridotto drasticamente le possibilità di accrescimento economico dei cittadini cubani ma non ha affatto contribuito a ridurre la presa del governo rivoluzionario sull’isola.

L’embargo a Cuba è stato di fatto un’assicurazione sulla vita per Castro e per il fratello Raul, succedutogli al potere nel 2008: la giustificazione con cui coprire gli errori economici del regime e mascherare le difficoltà di gestione della politica agraria, industriale e commerciale da un lato, una legittima fonte di propaganda fondata sull’incentivazione di una retorica resistenziale estesa su scala globale dall’altro. Tanto che Cuba presenta, con considerevoli elementi di verità, come successi strategici lo sviluppo di un ramificato sistema sanitario ed educativo nelle condizioni avverse in cui si è venuta a trovare.

I limiti della strategia

Dal 26 luglio 1964 sanzioni multilaterali furono varate contro Cuba dall’Organizzazione degli Stati Americani in forma complementare all’embargo Usa e vennero poi ritirate il 29 luglio 1975, lasciando di fatto fino ai giorni nostri in mano a Washington l’assedio economico all’Isla Bonita. A parte la fase di difficoltà aperta dal crollo dell’Unione Sovietica negli Anni Novanta, mai il governo castrista è stato seriamente messo in difficoltà, nelle sue prospettive di permanenza al potere, dalla politica anticubana condivisa da repubblicani e democratici, aggravata nel corso della presidenza Clinton da un nuovo giro di vite.

La distensione avviata da Barack Obama e Raul Castro col ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra il 2014 e il 2015 non si è concretizzata in una fine ufficiale delle sanzioni, rilanciate con forza da Donald Trump come pegno elettorale alla comunità cubana di Miami decisiva per la sua vittoria in Florida alle elezioni presidenziali 2016. Biden, in quest’ottica, dimostra di potersi distaccare solo con grandi difficoltà da un’agenda scritta dal suo predecessore e che, nonostante i cambiamenti di retorica, appare tutt’altro che rapsodica, se vista col senno di poi. Biden ha seguito Trump sul contenimento al 5G cinese, lo ha assecondato nella decisione di completare il ritiro dall’Afghanistan e ora, anche su Cuba, ne ripropone non solo le mosse (sanzioni e rafforzamento delle restrizioni) ma anche la retorica e i toni. Rendendo ancora più profondo il braccio di mare che separa la Florida e Cuba. Non influendo politicamente sulle prospettive del governo del presidente Miguel Diaz-Canel con nuove sanzioni che, come altre volte in passato, appaiono autoreferenziali.

E del resto l’utilità di nuove mosse di questo tipo ha ricevuto forti contestazioni anche in seno al Partito Democratico. “Questa è un’opportunità alla “Mr. Gorbaciov, abbatti questo muro!” – ha detto la senatrice democratica della Florida Annette Taddeo – “Dobbiamo essere un faro di speranza. Ci sono persone a Cuba che protestano sventolando la bandiera americana. Non è mai successo. Dobbiamo capire il momento che stiamo vivendo”, ha affermato, cogliendo il fatto che le sanzioni, come l’embargo, altro non fanno che alimentare un sentimento collettivo di astio e risentimento verso gli Usa nei  Paesi in cui essi hanno interessi geopolitici e strategici. La manovra di Biden, in sostanza, ripropone vecchi schemi perché incapace di concepirne di nuovi: a testimonianza di quanto l’ex “cortile di casa” degli Stati Uniti sia oramai diventato un terreno ostile.

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