Non la Russia, come hanno tentato invano di sostenere i democratici per anni, ma l’Ucraina. È il Paese ex sovietico ad aver concretamente interferito nelle elezioni statunitensi del 2016. È successo, naturalmente, con la complicità di alcuni americani che avevano un obiettivo ben preciso, quello di non far vincere Donald Trump. Lo racconta in un’inchiesta il sito americano Grayzone.

 Dopotutto, le ingerenze di Kiev non sono certo un segreto: il coinvolgimento dei funzionari ucraini non è mai stato nascosto ma fu ben documentato all’epoca. “Gli attori principali – racconta l’inchiesta di Yasha Levine – hanno parlato apertamente e si sono vantati delle loro imprese sulla stampa”. Nel 2016, infatti, “nessuno pensava che Trump avrebbe davvero vinto. Quindi perché preoccuparsi di nascondersi?”.

Un articolo del Financial Times del 2016 parla, per esempio, “della campagna dei leader ucraini contro il pro-Putin Donald Trump”. Un altro articolo, questa volta di Politico, datato gennaio 2017, spiega come alcuni “funzionari del governo ucraino” abbiano cercato “di aiutare Hillary Clinton” e “sabotare Trump mettendo in discussione pubblicamente la sua idoneità” per ricoprire la carica di Presidente degli Stati Uniti. “Un agente ucraino-americano – ricorda Politico – che si stava consultando per il Comitato nazionale democratico ha incontrato alti funzionari dell’ambasciata ucraina a Washington, nel tentativo di esporre i legami tra Trump, il principale aiutante della campagna Paul Manafort e la Russia, secondo persone con conoscenza diretta della situazione”.

L’affare Manafort e le ingerenze di Kiev

Esempio acclarato dell’ingerenza di Kiev negli affari interni Usa – con la complicità degli avversari di Trump, naturalmente – riguarda proprio il caso Manafort. Come spiega Grayzone, nel 2016, il giornalista e deputato Serhiy Leshchenko, vicino ai democratici Usa, annunciava che il partito dell’ex presidente filo-russo Viktor Yanukovich aveva pagato il consulente politico americano per i suoi servizi per una cifra che si aggirava attorno ai 12 milioni di dollari.

Questo portò successivamente, il 13 marzo 2018, lo stesso Paul Manafort, ex manager della campagna presidenziale di Donald Trump, a essere condannato ad altri 43 mesi di prigione per cospirazione e intralcio alla giustizia. Si trattava della seconda condanna nel giro di una settimana per l’ex consulente del presidente che solo la settimana prima era stato riconosciuto colpevole di frodi finanziarie e fiscali, ottenendo una pena a 3 anni e 11 mesi di carcere. I processi sono entrambi scaturiti nell’ambito dell’inchiesta sul Russiagate del procuratore speciale, Robert Mueller, ma non riguardano – come molti pensano – collusioni con Mosca.

Il blackbook su Manafort è stato pubblicato con l’aiuto di Nabu, un’organizzazione anti-corruzione del governo ucraino istituita sotto la presidenza Obama, finanziata dall’Fbi (organizzazione a sua volta coinvolta di uno scandalo che ha a che fare proprio con la corruzione e con la lotta interna di potere al Paese ex sovietico). Il dato fondamentale, rileva Grayzone, è che Leshchenko – un politico straniero – ha chiarito che il suo obiettivo in quel momento era quello di sabotare la candidatura di Trump. Questa è un’ammissione diretta di ingerenza. Come ha documentato Oleksiy Kuzmenko, Leshchenko ha ripetuto questa affermazione in vari modi sia in inglese che in ucraino, più e più volte. Leshchenko è stato successivamente additato da Rudolph Giuliani, avvocato di Trump, come “nemico del presidente e degli Stati Uniti”. Come ha dichiarato lo scorso maggio il procuratore generale dell’Ucraina Yuriy Lutsenko, Sergey Leshchenko è stato chiamato in procura “in relazione alle indagini sulla divulgazioni dei dati contenuti nel blackbook del Partito delle Regioni”, fatto che ha portato “all’interferenza dell’Ucraina” nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti nel 2016. Secondo il procuratore generale Leschenko avrebbe inoltre ricevuto finanziamenti dall’Ambasciata americana a Kiev.

Rudy Giuliani all’attacco

Di ingerenze ucraine negli affari interni Usa – con l’avvallo dei democratici – ne parla anche Rudolph Giuliani, ex sindaco “sceriffo” di new York. Come abbiamo raccontato in questo articolo, su Twitter l’avvocato di Donald Trump ha pubblicato una lettera inviata a Lindsey Graham, il senatore capo del Comitato giudiziario del Senato degli Stati Uniti e molto vicino al presidente Donald Trump, nella quale Giuliani sostiene che vi siano “prove dirette” della “cospirazione criminale dei democratici con gli ucraini” ai danni di Trump. Nei giorni scorsi Graham ha avviato un’inchiesta che si concentra sui colloqui telefonici che Joe Biden ebbe con l’ex presidente ucraino Petro Poroshenko riguardo al licenziamento del principale procuratore del Paese, nonché sulle comunicazioni che facevano riferimento all’indagine di Kiev su Burisma, la compagnia ucraina di gas naturale che assunse Hunter Biden, figlio del candidato alle primarie del partito democratico, a 50mila dollari al mese.





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