Nel 1991, il celebre sociologo americano James Davison Hunter scrisse un saggio molto fortunato, intitolato “Culture Wars: The Struggle to Define America” (Le guerre culturali: la lotta per definire l’America), incentrato sulle “guerre culturali” che polarizzavano il dibattito politico come l’aborto, i diritti delle persone Lgbt, la religione delle scuole pubbliche e altri temi simili. Trent’anni dopo, quelle “guerre culturali” si sono espanse e hanno definito la nuova “politica dell’identità” che divide progressisti e conservatori in linee di faglia sempre più profonde e radicate. In Teoria del Partigiano, il giurista tedesco Carl Schmitt, affermava che “la guerra dell’inimicizia assoluta non conosce alcuna limitazione. Trova il suo senso e la sua legittimità proprio nella volontà di arrivare alle estreme conseguenze”.
Se pensiamo alle polarizzazioni radicali della politica americana – suprematisti bianchi da un lato, Black Lives Matter dall’altro o gli assaltatori di Capitol Hill e gli Antifà – la sensazione è che le guerre culturali di oggi possano arrivare a “estreme conseguenze” proprio perché a questo senso di “inimicizia assoluta” non vi è alcuna limitazione. Cos’è cambiato rispetto al 1991, dunque? In primo luogo, la politica al tempo sembrava di poter essere un veicolo attraverso il quale risolvere questioni culturali divisive; ora accade l’esatto contrario e la politica è principalmente alimentata dalla divisione sulle questioni più “identitarie”.
I dibattiti ora riguardano punti di vista inconciliabili su questioni relative a valori, norme e simboli: l’avversario politico è diventato il “nemico”, con tutte le conseguenze del caso. In secondo luogo, le guerre culturali oggi non riguardano solo la società americana, ma anche il Vecchio continente. Negli ultimi anni, infatti, una serie di controversie relative a questioni religiose, culturali e identitarie hanno caratterizzato il dibattito pubblico europeo sia a livello comunitario che nazionale. Esempi? Il dibattito sullo hijab Francia e quello sull’aborto in Portogallo, il riconoscimento dei matrimoni omosessuali in molti Stati dell’Europa occidentale, il dibattito sulla bioetica e la regolamentazione dell’eutanasia, oltre ai diritti Lgbtq.
Le guerre culturali europee
Secondo il politologo polacco-americano Marek Jan Chodakiewicz, sebbene tutti i Paesi dell’Unione europea abbiano sposato il libero mercato e la democrazia liberale, nel continente persistono profonde differenze culturali. I Paesi dell’Europa occidentale, ad esempio, tendono ad essere “woke” e politicamente corretti – o quantomeno le rispettive élite politiche e- mentre l’est si oppone attivamente alle “innovazioni culturali imposte da Bruxelles”. Basti pensare, ad esempio, a quanto hanno fatto discutere nell’opinione pubblica dei Paesi occidentali la decisione di Varsavia di vietare di trattare tematiche Lgbtq nelle scuole o alla scelta di Bruxelles di congelare i fondi Ue per quei territori della Polonia che si sono dichiarati “liberi dall’ideologia Lgbt”.
O ancora, al braccio di ferro fra l’Unione europea e l’Ungheria sulla legge “anti-Soros” e sulla chiusura dell’Università legata al magnate liberal della finanza. Senza contare la questione migranti, che divide profondamente i Paesi dell’Europa occidentale da quelli dell’est.
Frizioni con l’est “illiberale”
Le maggiori tensioni riguardano la sessualità e diritti dei gay. Budapest ha da poco approvato una legge anti-Lgbt che vieta le rappresentazioni di qualsiasi orientamento sessuale diverso da quello etero, spingendo una parte dell’opinione pubblica occidentale a chiedere di cacciare l’Ungheria dall’Unione europea. Guardando la cartina geografica, nota Jan Chodakiewicz, in un certo senso, quindi, “l’Unione Europea è come gli Stati Uniti”, con gli stati rossi, da un lato, e gli stati blu, con le coste e le loro grandi città, da a una parte, e le periferie dei grandi centri urbani dall’altra.
Inoltre, riflette, “ci sono enclavi urbane liberali blu, ad esempio Budapest e Varsavia, entrambe governate da liberali. Allo stesso modo, ci sono enclavi rosse, nella palude blu dominante, ad esempio nella regione occidentale della Vandea in Francia”. Infatti, in generale, “nell’elettorato della parte orientale dell’Ue prevalgono atteggiamenti socialmente e culturalmente conservatori. Per questo motivo e per l’eredità dell’occupazione comunista sovietica, questi popoli sono meno desiderosi di sperimentare l’ingegneria sociale e l’innovazione culturale, come la teoria critica della razza, i diritti Lgbtq e altri fenomeni simili”. Da una parte, dunque, le grandi città europee multiculturali e “woke”, influenzate dai liberal statunitensi: dall’altra nazioni che dal punto di vista geopolitico sono più legate all’America di quanto non lo siano verso Bruxelles – come la Polonia, cardine della “Nuova Europa” – guidate da una classe dirigente conservatrice e fieramente anti-progressista. I paradossi di un’Unione europea a cui non basterà la guerra in Ucraina per sentirsi davvero “unita”.