A partire dall’1 febbraio Jim Yong Kim lascerà l’incarico di presidente della Banca Mondiale, dopo l’annuncio delle sue dimissioni comunicate a sorpresa nei giorni scorsi. Il 69enne Kim, medico e antropologo statunitense di origini coreane, era stato eletto nel luglio 2012 Presidente della Banca Mondiale, su indicazione dell’Amministrazione Obama. Il mandato era stato quindi rinnovato nel 2016. Kim potrebbe – secondo il Wall Street Journal – assumere un incarico in una società attiva nel settore degli investimenti per le infrastrutture. La posizione di presidente sarà occupata ad interim dall’Ad, Kristalina Georgieva.
Nel frattempo, l’istituto con sede a Washington D.C. si troverà a vivere la fase più delicata degli ultimi decenni. La Banca Mondiale, che è composta dalla Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo e dall’Associazione Internazionale per lo Sviluppo e riunisce oltre 170 nazioni, negli ultimi tempi ha portato la sua attenzione principalmente sui finanziamenti nella lotta alla povertà globale e nel supporto a progetti infrastrutturali per Paesi in rapida ascesa come India e Cina, in cui investe complessivamente oltre un miliardo di dollari. Storicamente pilastro importante del “Washington Consensus”, l’architrave dell’ordine liberale della finanza e dell’economia internazionale strettamente legata agli apparati statunitensi, la Banca Mondiale è una delle istituzioni contro cui si è sempre concentrata con la maggior foga l’attenzione di Donald Trump a partire dal suo insediamento.
La Banca Mondiale si configurerebbe come istituzione eccessivamente multilaterale, secondo Trump, essendo a detta dell’amministrazione eccessivamente focalizzata sul sostegno alle attività di nazioni che con gli Stati Uniti hanno un rapporto conflittuale, prima fra tutte la Repubblica Popolare. Gli Stati Uniti sono per distacco i più importanti contributori del bilancio da 64 miliardo di dollari che la Banca Mondiale ha a disposizione, e per prassi la Casa Bianca detiene il potere di nomina del Presidente, figura che controbilancia la direzione tradizionalmente europea del Fondo Monetario Internazionale.
Kim, accademico di fama molto gradito all’amministrazione Obama, è visto da Trump e dai suoi come eccessivamente legato al precedente governo e, anzi, ostile alle nuove politiche commerciali di Washington e alla svolta restrittiva sulla lotta ai cambiamenti climatici. Trovandosi di fronte alla scelta del nuovo Presidente della Banca Mondiale, Trump, secondo quanto scrive Bloomberg, potrà per la prima volta applicare concretamente il principio America First alle relazioni con le tanto bistrattate organizzazioni internazionali. In seno all’amministrazione Trump vi è anche chi, come John Bolton, in passato è arrivato a proporre la privatizzazione della Banca Mondiale e l’integrazione delle sue attività nel solco dell’apparato federale Usa.
La nomina della Casa Bianca deve essere poi confermata con la votazione dei Paesi membri dell’istituzione: e gli Usa non hanno la maggioranza assoluta per portare avanti una figura capace di stravolgere la condotta in favore totale del loro interesse nazionale. Trump ha la possibilità di scegliere un Presidente capace di lanciare la sfida alle nuove istituzioni multilaterali che da diverso tempo sfidano oramai il Washington Consensus, come l’Aiib cinese o la banca dei Brics, ma non può agire incontrastato. Il momento strategico è di grande importanza, anche perché gli Stati Uniti dovranno rintuzzare le richieste di numerosi Paesi emergenti di avere voce in capitolo nella governance finanziaria internazionale.
Certamente, le prime indiscrezioni lasciano presagire che il successore possa essere un trumpiano doc, come nel caso dell’ex Ambasciatrice all’Onu Nikki Halley, o addirittura un Trump, se si rivelassero vere le voci della presenza della figlia del Presidente Ivanka tra i possibili sostituti di Kim. In ogni caso, Trump pare determinato a rendere la nomina un vero e proprio insider job. E questo crea problemi in sede di ratifica definitiva.
Già un Presidente designato da un’amministrazione sensibile al multilateralismo come Kim dovette superare nella votazione alla Banca Mondiale lo scoglio delle candidature ribelli dell’ex Ministro delle Finanze nigeriano, Ngozi Okonjo-Iweala. Ora, nell’era Trump potrebbe farsi più forte la richiesta di un nome non statunitense, quale potrebbe essere la leader ad interim Georgieva, ex membro della Commissione europea. Per sterilizzare le possibili opposizioni, di recente la Casa Bianca ha varato un inaspettato aumento del contributo statunitense alla Banca Mondiale. Probabile prezzo da pagare per avere la “testa” di Kim? O mossa tattica per mantenere la golden share? Ancora presto per dirlo.
In ogni caso, oltre alla pista europea le insidie concrete alla nomina trumpiana non sembrano essere molte. Mark Sobel, Presidente del think tank Omfif, ha dichiarato al Financial Times che se i Paesi emergenti vogliono inserirsi nella partita per la successione dovranno individuare una figura di statura internazionale capace di fungere da candidatura comune. Di nomi all’altezza, non sembrano essercene, almeno per ora. E così la successione a Kim parte nella più completa incertezza.