Uno dei molteplici effetti politici della guerra in Ucraina è stato quello di avere rafforzato l’immagine e la rilevanza della Nato nel quadro strategico europeo. Non era una missione semplice, tantomeno scontata. Va infatti ricordato che prima dell’ormai noto annuncio di Vladimir Putin sull’annessione delle repubbliche autonome del Donbass, l’Alleanza Atlantica arrivava da un periodo estremamente complesso. Il precipitoso ritiro Usa (e occidentale) dall’Afghanistan aveva mostrato i deficit di comunicazione tra potenze e aveva fatto storcere più di un naso tra i partner Nato a causa della scelta “improvvisa” di Joe Biden.
Un tema che era già stato sollevato durante la presidenza di Donald Trump, il quale però aveva sempre manifestato una visione molto meno “filoeuropea” della sua amministrazione. Inoltre, prima di questo conflitto in Europa orientale, in tanti avevano espresso perplessità sul ruolo della Nato in alcuni contesti globali di conflitto, a cominciare da quelli mediorientali. Il presidente francese Emmanuel Macron, in una delle sue interviste più note, aveva addirittura parlato dell’Alleanza in una condizione di “morte cerebrale”, suggerendo di fatto un suo ripensamento anche in virtù del dibattito sull’autonomia strategica europea e ricordando l’assenza di leadership atlantica in diversi momenti di crisi. L’assenza di un conflitto con la Russia e la conseguente crescita di altri fenomeni e minacce a sud e a sudest del blocco, in particolare in Nord Africa e in Medio Oriente, aveva poi allargato le crepe all’interno della Nato, in cui le diverse anime che la caratterizzano mostravano diverse linee strategiche. Infine, la ripresa della discussione sulla Difesa europea aveva in qualche modo dato l’avvio a una serie di riflessioni sul ruolo stesso della Nato, visto come una pesante eredità strategica del Novecento in virtù di un’epoca in cui alcuni leader dell’Unione europea auspicavano un peso sempre maggiore a livello politico di Bruxelles.
La guerra in Ucraina ha certamente smantellato, quantomeno nell’immediato, alcuni dubbi sul ruolo della Nato. Il blocco euroatlantico appare forte, saldamente ancorato alle volontà di Washington e profondamente radicato nella cultura strategica europea, visto che tutti i governi hanno dovuto ammettere l’importanza dell’appartenenza a questo sistema in caso di conflitto con una superpotenza. Inoltre, la percezione di sicurezza fornita dall’essere membro della Nato ha fatto sì che alcuni Paesi storicamente titubanti abbiano scelto di far parte dell’alleanza, con Finlandia e Svezia simboli di questa nuova Europa a trazione fortemente atlantista.
L’idillio della Nato non deve però far credere che le diverse anime che compongono un blocco sempre più ampio siano scomparse. Anzi, alcuni elementi accaduti proprio in questi mesi, a cominciare dalla scelta di prolungare ulteriormente il mandato del segretario generale Jens Stoltenberg, fanno pensare che le divisioni interne permangono, pur nella piena consapevolezza del ruolo al momento imprescindibile dell’Alleanza atlantica.
Divisioni che, in larga parte, sono frutto di due fattori strettamente legati l’uno all’altro. Uno è il fattore geografico, l’altro quello eminentemente culturale e politico. Se infatti si osserva la carta dei Paesi membri dell’Alleanza, è abbastanza chiaro che ogni singolo partner non può avere necessariamente un interesse pari a quello di chi vive all’opposto del continente o ancora di più al di là dell’oceano, suggerendo perciò diversi approcci rispetto a questioni interne e rapporti con l’esterno.
Baltici, il blocco dei “falchi”
Un primo esempio di questa differenza di vedute arriva dalla parte orientale dell’Europa, in particolare quella baltica. Dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, Polonia e Paesi baltici hanno rappresentato l’ala più intransigente nei confronti della Russia. Una scelta perfettamente in linea con la storia di questi Stati ma anche con la percezione del pericolo dei governi rispetto al vicino moscovita.
Quest’ala dura si è rivelata nel tempo non soltanto forte, ma anche politicamente trasversale, unendo sia movimenti conservatori che progressisti ed escludendo, pertanto, solo i movimenti legati alle minoranze russe o storicamente vicini a Mosca e avversi al blocco occidentale. E nel tempo, queste posizioni sono diventate un vero e proprio marchio di fabbrica dell’area baltica, al punto da diventare i migliori alleati degli Stati Uniti (e del Regno Unito) sia nel contrasto alla Russia sia nel perorare la causa dell’Alleanza atlantica come fortemente proiettata a est e legata alla linea strategica Usa.
La guerra in Ucraina ha confermato il ruolo sempre più da protagonista di Varsavia e, in secondo luogo, delle altre capitale baltiche, trasformando così questi Paesi in alleati sempre più centrali nel consesso atlantico ma anche in grado di orientare la politica Nato. La paura del vicino russo unita all’ascesa della Polonia come hub strategico Usa ma anche come potenza militare ha così rafforzato l’asse nord-orientale del blocco, garantendo a questa regione un ruolo di primo piano. Inoltre, l’obiettivo del competo disaccoppiamento energetico da Mosca ha rafforzato la posizione di forza della regione, che ora guarda all’Occidente e agli alleati Nato e della Nato anche in chiave di sicurezza energetica e di sfida al nemico russo.
Il nodo Ungheria
Il timore nei confronti della Russia caratterizza molti Paesi dell’Europa orientale per il passato sotto l’impero russo o quello sovietico. L’Ungheria non fa eccezione, dal momento che ha vissuto sulla propria pelle l’arrivo dei carri armati sovietici e ha costruito anche sulla rivolta contro quelle truppe uno dei suoi pilastri culturali. Tuttavia, questo non ha evitato a Viktor Orban, pur nella sua appartenenza al mondo conservatore, di porsi in una posizione di mediazione tra Vladimir Putin e la Nato. Una scelta che non esclude che l’Ungheria resti fondamentale nello scenario atlantico – come dimostrato dalla basi presenti nel Paese – ma che ha mostrato come Budapest abbia un ruolo peculiare rispetto al resto dei Paesi orientali. Lo conferma anche il suo semaforo rosso all’adesione dell’Ucraina.
Questo ha avuto anche ripercussioni sul mantenimento del Gruppo Visegrad: uno dei protagonisti della politica europea di questi anni. La divergenza di vedute riguardo la Russia, infatti, ha sensibilmente diminuito l’unità dei Paesi orientali e al desiderio di mostrarsi sempre in blocco di fronte a scelte strategiche, portando l’Ungheria ad avere un ruolo molto diverso rispetto ad esempio ai baltici. E così Budapest si è trasformata nella capitale meno aderente alla fermezza verso Mosca, premendo anche con ostacoli e veti per una politica meno assertiva sul fronte orientale.
Bulgaria e Romania: timori e ambizioni
I Balcani orientali, soprattutto per la vicinanza geografica all’Ucraina, sono i primi Paesi, insieme ai Baltici, a essere preoccupati dall’allargamento degli interessi russi nell’area, complice anche il passato sotto l’Unione Sovietica. Negli anni però Bulgaria e Romania, entrambe membri Nato a partire a partire dall’allargamento del 2002, hanno avuto un’importanza diversa rispetto ai piani di Bruxelles e degli Stati Uniti. Per larghi tratti, i destini di Bucarest sono stati visti come periferici, con una Nato che si è interessata molto più all’allargamento da compiere nei Balcani occidentali e con il focus incentrato sulla missione in Kosovo.
Questa appartenenza meno rilevante rispetto ai piani Nato è cambiata nel corso degli anni con l’aumento dell’assertività russa: elemento che ha comportato un maggiore interesse dell’Alleanza per questi due Paesi fortemente legati alla Russia sotto il profilo energetico, ma di conseguenza anche a un maggiore peso dei governi bulgari e rumeni nel consesso atlantico. In una posizione storicamente meno dura rispetto ai baltici, complice anche la forte dipendenza dal vicino russo, i due Paesi hanno modificato la loro postura soprattutto negli anni della guerra in Donbass e dell’annessione della Crimea e poi con l’attuale invasione russa. Questo però non ha cancellato alcune distanze rispetto al resto del blocco Nato sul tema dei rapporti con Mosca.
La Bulgaria, ad esempio, ha di recente confermato il suo “no” all’invio di armi a Kiev nonostante la pressione di Zelensky per convincere l’omologo Rumen Radev, Sofia ha ribadito la sua linea sostenendo anche all’assenza di una prospettiva di soluzione militare alla guerra. Le anime bulgare sono diverse: il premier Nikolai Denkov ha ad esempio ribadito pieno sostegno all’Ucraina siglando accordi anche per sostenere l’adesione alla Nato. Ma la diversità di vedute in seno alla politica suggerisce come la Bulgaria abbia una posizione meno netta sul nuovo spirito atlantista.
La Romania, rispetto al vicino bulgaro, ha invece manifestato da tempo una netta virata verso Occidente, cristallizzata soprattutto nell’aumento della spesa militare. Come molti Paesi orientali, la Romania oggi supera lo standard del 2% del budget per la Difesa, mentre a testimoniare la scelta di rafforzare la propria postura atlantica, il primo ministro Marcel Ciolacu ha anche chiesto che siano dispiegate truppe tedesche nel Paese. Idea che Berlino al momento sembra avere però congelato.
L’autonomia turca
Con la lunga stagione di potere di Recep Tayyip Erdogan, la Turchia ha occupato un ruolo di primo piano all’interno della Nato costruendo uno spazio di autonomia forse unico nell’intero panorama regionale. Per molto tempo, Ankara ha rappresentato in sostanza il guardiano dell’Alleanza al confine sud-orientale, diventando il pilastro strategico Nato in Medio Oriente.
Negli anni, però, la Turchia ha evitato di ancorarsi a una linea atlantista, giocando su un sottile equilibrio tra interessi Usa e prospettive “filorusse”. Il risultato è stato un’agenda strategica spesso del tutto svincolata dalla condivisione delle prospettive atlantiche, e questo è il frutto anche dalle peculiarità turca, a sua volta divisa tra un’aspirazione imperiale, sguardo rivolto a Occidente ma senza dimenticare i legami con l’Oriente. Basti ricordare il grande tema della fornitura di S-400 russi alla Turchia: scelta che è valsa ad Ankara l’estromissione dal programma F-35 ma anche un raffreddamento dei rapporti con Washington manifestati anche dal rafforzamento della presenza militare nella Grecia alleata-rivale.
Quest’anima autonomia della Turchia si vede anche dallo scoppio della guerra in Ucraina, in cui Erdogan ha sempre mantenuto un dialogo con Putin anche in virtù della partnership nel conflitto siriano, nel Caucaso e per la gestione del traffico navale del Bosforo.
La posizione turca rappresenta un unicum nel panorama Nato, e lo si nota anche nel modus operando di Ankara per l’adesione di Finlandia e Svezia, in cui Erdogan ha posto diversi veti in virtù dei rapporti tra Helsinki ma soprattutto Stoccolma con movimenti visti come nemici dal “Sultano”. Questo modo di operare, tuttavia, non si è mai ampliato in un blocco: la Turchia ha rappresentato sempre se stessa, mostrando in questo modo un attivismo solitario, marcatamente imperiale ma mai in grado di sollevare adesione altrove, a eccezione dell’Ungheria. Esemplare in questo senso la rivalità con la Grecia e prima con la Francia.
Il blocco “europeista”: Francia, Germania, Italia e Spagna
Le tre grandi potenze dell’Unione europea più la Spagna rappresentano all’interno della Nato dei protagonisti fondamentali per diverse ragioni. La Francia per la sua nota politica di autonomia strategica, che l’ha portata anche a negarsi alla Nato, a mantenere per sé l’arsenale nucleare e a perorare la causa della difesa comune europea in chiave di indipendenza dall’Alleanza. La Germania, per molto tempo “colomba” dei rapporti con la Federazione Russa nell’era Schröder e Merkel, ora con Olaf Scholz si è riattivata sul piano militare e diplomatico per assecondare Washington pur mantenendo una sua peculiare posizione di potenze economica. L’Italia è saldamente ancorata alla Nato e all’Unione europea e più volte ribadisce la posizione di piena adesione alle scelte di Bruxelles, ma questo non ha mai escluso un interesse di Roma a far sì che la Nato, oltre che a guardare verso est, guardasse in particolare sul fronte Sud, rimodellando la propria politica più a 360 gradi.
Queste posizioni si osservano anche in ambito Nato dove, pur con le loro differenze, Berlino, Parigi e Roma (e Madrid anche se in posizione più defilata) hanno spesso rappresentato il margine “europeista” o, se vogliamo, più “autonomista” rispetto alla linea cosiddetta atlantista. Lo dimostra anche l’importanza che ha avuto per molto tempo il dibattito sull’autonomia strategica in queste tre capitali. Lo hanno confermato anche i rapporti positivi avuti negli anni con Mosca. Ma lo hanno dimostrato anche i dibattiti in seno all’Ue riguardo gli investimenti sul fronte della difesa, in cui la Polonia ha spesso contraddetto la linea francese di volere investire i soldi europei solo con aziende europee.
Al netto della evidente solidarietà nei confronti dell’Ucraina, non è un caso che siano stati proprio Scholz e Macron gli unici due leader a tentare di dialogare con Putin nelle prime fase di del conflitto e in quelle immediatamente precedenti. L’asse franco-tedesco infatti ha per anni rappresentato il motore dell’Unione europea ma anche quell’alleanze che doveva essere il contrappeso dell’Europa centrale rispetto alle posizioni più legate all’atlantismo. L’invasione russa, smentendo le “colombe”, ha di fatto ridotto lo spazio di manovra di queste posizioni meno nette. Eppure Berlino e Parigi, pur con posizioni diverse, hanno mantenuto la linea del freno rispetto alle scelte più dure paventate dai “falchi”. E questo lo si vede anche nei rapporti con la Cina, rivale sistemico per la Nato ma partner commerciale di fondamentale importanza per questi Paesi.
Stati Uniti, Canada e Regno Unito. L’Anglosfera unita
Come leader dell’Alleanza e soprattutto come superpotenza, gli Stati Uniti rappresentano più di un’anima all’interno della Nato, esprimendone in realtà la linea strategica. La Nato rappresenta di fatto la declinazione in chiave europea degli interessi transatlantici, saldando Washington e l’Europa in un destino comune. La posizione Usa, tuttavia, è molto spesso meno netta di quanto si possa credere, e lo ha confermato anche la recente presidenza Trump che ha rappresentato l’epigono della linea più isolazionista americana rispetto all’Europa. Se infatti la Nato è fondamentale per gli Stati Uniti dal punto di vista politico, sotto il profilo militare sono in molti ad avere dubitato in passato della prospettiva del blocco, pesando soprattutto il poco investimento economico degli alleati europei. Questo ha fatto sì che molto spesso la Nato non abbia rappresentato il principale interesse trasversale della politica americana, che a volte si è confrontata anche con la scelta se includere i partner Nato nelle decisioni e nelle mosse adottate su scala internazionale o se evitare il coinvolgimento andando di testa propria.
Questa dicotomia ha fatto sì che molto spesso alcune scelte Usa non siano state comprese da alleati che avevano perplessità sull’unilateralismo di Washington. Questo è valso non solo più di recente per il ritiro dall’Afghanistan, ma anche in passato per alcune strategie mediorientali e nordafricane o anche in chiave di contrasto alla Russia o in prospettiva alla Cina. D’altro canto, gli Stati Uniti non hanno mai negato che il timore che una difesa comune europea e una autonomia strategica del continente si rivelassero dei blocchi protezionistici delle aziende del Vecchio Continente, colpendo quindi l’industria bellica e la tecnologia Usa.
In questa prospettiva, i migliori alleati Usa, a parte i baltici, sono rappresentati da quei due Paesi che partecipano all’Anglosfera e che anche a livello di cultura strategica sono perfettamente ingrati in un unico sistema di pensiero: Regno Unito e Canada. Pur con delle differenze, Londra, Ottawa e Washington si muovono quasi sempre in sintonia, soprattutto Regno Unito e Stati Uniti per quanto riguarda la condivisione della politica strategica in Europa. E questo rappresenta spesso un blocco compatto anche nel consesso Ue. La scelta di riorientare la politica Nato anche in chiave di contenimento della Cina nell’Indo-Pacifico certifica, in questo senso, la preponderanza di Washington nella scelta degli obiettivi a breve e lungo termine dell’Alleanza. Ma anche il peso ormai consolidato degli Usa nonostante alcuni momenti in cui le ultime amministrazioni avevano fatto temere un certo distacco.
I Paesi del Nord
La Scandinavia, con l’ingresso della Finlandia e la possibile adesione alla Nato della Svezia, è uno dei blocchi regionali più interessanti e innovativi dell’Alleanza. Mentre prima erano Norvegia e Danimarca a rappresentare gli interessi dei Paesi che si proiettano verso il cosiddetto “Alto Nord”, ora l’ingresso di Helsinki e (forse) di Stoccolma produce due effetti. Da un lato il rafforzamento del blocco nordico o scandinavo in chiave di partnership militare ulteriore alla stessa adesione alla Nato. Dall’altro lato, una potenziale saldatura di questo blocco con quello baltico, unito sia sotto il profilo economico che sotto quello energetico e strategico. Se infatti in questi decenni le due “new entries” della Nato erano nell’Ue ma in posizione di neutralità attiva rispetto a Mosca, l’adesione al blocco politico-militare dell’Occidente ora rafforza la linea atlantista, quantomeno nell’immediato futuro.
Questo può essere utile anche per i tre grandi obiettivi strategici che sono presenti nei documenti Nato. Da un lato blindare il Baltico e l’Artico per bloccare le sortite russe e monitorare Kaliningrad. Dall’altro lato, non va sottovalutato l’interesse di Washington, Londra e Bruxelles sul fronte cinese, che soprattutto con la possibile apertura delle rotte polari, può essere un attore estremamente rilevante nel panorama strategico europeo. Infine, ultimo ma non per importanza, il possibile sfruttamento delle risorse artiche: motivo per cui, oltre alla già nota importanza della Norvegia nell’approvvigionamento energetico in sostituzione della Russia, la regione può avere un peso maggiore nelle dinamiche Nato (e non solo).