Nella regione contesa del Nagorno Karabakh si è assistito al compimento dell’ultimo capolavoro diplomatico del Cremlino. Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan e il presidente azero Ilham Aliyev hanno accettato un accordo di cessate il fuoco di elaborazione russa che accontenta Baku e Ankara, punisce il governo di Yerevan e riporta Mosca a vigilare sul destino del Caucaso meridionale.

L’assenso azero è da leggere come un assenso (parziale) turco, poiché uno dei grandi burattinai del conflitto è stato Recep Tayyip Erdogan, perciò la pacificazione del Nagorno Karabakh rientra nella lista sempre più lunga di quelle aree che Ankara e Mosca stanno spartendosi, a livello di territorio e/o di influenza, riscrivendo quel che resta del decadente ordine internazionale post-guerra fredda.

La collaborazione tra Russia e Turchia, però, soffre di un grosso limite: promana dal recente stabilimento di un matrimonio di convenienza, sviluppatosi all’indomani del fallito colpo di Stato del luglio 2016, e non poggia su basi che garantiscano la trasformazione dello sposalizio per interesse in un sodalizio resistente e duraturo. Inoltre, gli Stati Uniti, che continuano ad esercitare un astro tremendamente potente sulla Turchia, continueranno ad ostacolare con ogni mezzo e in ogni modo la possibile nascita di un asse russo-turco.

La Turchia sorride, ma non ride

Dalla tarda sera del 9 novembre il silenzio della pace ha sostituito il rumore della guerra nel Nagorno Karabakh, la regione al centro di una disputa secolare tra Armenia e Azerbaigian. L’accordo di cessate il fuoco rappresenta una vittoria in termini territoriali per l’Azerbaigian, che ha ri-esteso la propria sovranità su una serie di territori perduti nella guerra dei primi anni ’90, e in termini diplomatici per la Russia, che ha ottenuto simultaneamente il controllo de facto della repubblica non riconosciuta e la prossima uscita di scena dello scomodo Nikol Pashinyan.

Il piano di pacificazione del Cremlino è stato elaborato in maniera tale da limitare al massimo le possibilità di manovra della Turchia nel Nagorno Karabakh: l’integrità dello strategico corridoio di Lachin è stata preservata e i punti-chiave della regione, come Stepanakert, verranno sorvegliati da un piccolo esercito composto da quasi 2mila truppe adibite a vigilare sul mantenimento della pace e sul rispetto degli accordi.

A distanza di poche ore dal raggiungimento del cessate il fuoco, sullo sfondo delle proteste antigovernative a Yerevan e del giubilo per le strade di Baku, la stampa turca ha iniziato una campagna disinformativa con il chiaro intento di notificare al Cremlino il disappunto della diplomazia turca. Ankara, infatti, vorrebbe partecipare attivamente e direttamente all’operazione di mantenimento di pace, ossia attraverso l’invio di propri soldati, ma ha ottenuto soltanto l’apertura di un centro di monitoraggio in territorio azero che verrà gestito in maniera congiunta con Mosca.

La stampa turca, spalleggiata da alcune personalità del governo, ha iniziato a diffondere bufale inerenti le clausole dell’accordo di cessate il fuoco, sostenendo che le proprie forze armate sarebbero partite alla volta del Nagorno Karabakh. La campagna disinformativa ha rapidamente superato i confini dell’Anatolia e contribuito ad alimentare una confusione tale che Dmitry Peskov, il portavoce della presidenza, e Sergey Lavrov, il ministro degli Esteri, hanno dovuto provvedere a smentire personalmente le bufale.

La Turchia, con quella breve ma intensa campagna disinformativa, ha voluto inviare un messaggio al Cremlino: la partecipazione alla spartizione della torta non è equa, ha tradito le aspettative di Erdogan. Lo status quo attuale, infatti, impedisce ad Ankara di entrare nel Nagorno Karabakh e ne circoscrive il raggio d’azione a Baku che, comunque, lungi dall’essere divenuta un feudo esclusivamente turco, continua a subire l’influenza dell’astro russo.

La pace è stata raggiunta ma l’equilibrio sul quale essa poggia è estremamente fragile: gli armeni vorrebbero una rivincita, gli azeri continuano ad ambire al recupero dell’intera regione e i turchi hanno palesato la scontentezza per aver ottenuto una vittoria mutilata, non essendo riusciti nell’obiettivo di partecipare ad una spartizione equa del Caucaso meridionale, che, nella prospettiva di Ankara, è la testa di ponte per l’Asia centrale, il pilastro fondante dal quale passa inevitabilmente la realizzazione del cosiddetto corridoio panturco.

Verso una pace fredda?

L’accordo di cessate il fuoco ha rallentato l’avanzata turca nel Caucaso meridionale, e quindi i sogni egemonici nel Turkestan del duo Erdogan-Cavusoglu, ma il protagonismo di Ankara nel corso delle ostilità non sarà stato invano; esso ha sicuramente gettato le basi per la costruzione di un sodalizio di ferro con Baku nel dopoguerra. Non sono state sventolate bandiere con il tricolore russo durante le celebrazioni trionfali che hanno congestionato le strade delle città azere la notte del 9 novembre, ma bandiere con la mezzaluna e stella turca; un fatto eloquente.

Nel dopoguerra Aliyev continuerà a tenere in considerazione l’influenza effettiva e il prestigio diplomatico di cui gode il Cremlino, ma dovrà anche rispondere alle esigenze di un’opinione pubblica che sta subendo in maniera crescente la fascinazione per la Turchia e per il panturchismo, sullo sfondo di un obbligato e obbligatorio do ut des con cui ringraziare Erdogan per il supporto offerto all’Azerbaigian in termini di appoggio diplomatico, armamenti e combattenti irregolari.

Il Nagorno Karabakh, in breve, si aggiungerà all’elenco di quei teatri in cui i due coniugi di questo matrimonio di convenienza antistorico hanno trovato il modo di coesistere pacificamente, seppure in maniera fredda, come sono ad esempio la Siria e la Libia. Le relazioni russo-turche, però, nel Caucaso come in Medio Oriente, non potranno mai essere basate su una piena fiducia reciproca né essere capaci di condurre a paci che non siano fredde per via di divergenze ideologiche, ragioni storiche e del fattore Stati Uniti.

La Turchia, infatti, ambisce a frazionare l’intero spazio postsovietico e il mondo russo in conformità con la propria agenda estera mescolante panturchismo e turanismo. Il sogno di Erdogan è la costruzione di un impero informale turco-centrico stanziato dai Balcani alla Siberia, mentre l’obiettivo del Cremlino è molto più semplice e meno ideologico: tutelare la primazia russa in quei territori che un tempo furono parte dell’Unione Sovietica.

Nel lungo termine, quindi, il matrimonio di convenienza si sfalderà inevitabilmente, cadendo sotto il peso delle contraddizioni su cui si regge, ma nel breve e nel medio potranno essere conseguiti risultati ragguardevoli per via della presenza di interessi temporaneamente coincidenti e convergenze tattiche. Entrambe le potenze, inoltre, sono guidate dalla comune volontà di ridurre l’influenza occidentale in Eurasia; si tratta di un movente che potrebbe e dovrebbe indurle ad appianare le loro divergenze ma che, invece, fino ad oggi, non ha avuto riflessi significativi nel campo dell’azione. Questo è accaduto, e sta accadendo, perché la Turchia, pur essendosi smarcata dall’Unione Europea, continua a subire l’influenza degli Stati Uniti, i quali l’hanno storicamente strumentalizzata in chiave antisovietica, e oggi antirussa, portando avanti una tradizione risalente all’epoca dell’impero britannico.

L’incompatibilità di fondo tra la Terza Roma e la Sublime Porta sarà alla base del loro futuro divorzio, a meno dello sviluppo di tendenze ed eventi ad oggi imprevedibili e impensabili, come ad esempio l’uscita turca dall’Alleanza Atlantica, le cui carte verranno firmate, con elevata probabilità, dal coniuge turco e dall’amante americano.