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“Le forze armate Usa potrebbero soffrire un numero inaccettabilmente elevato di vittime e perdite di risorse fondamentali nel loro prossimo conflitto”. Così conclude il rapporto della commissione del Congresso americano sulla National Defense Strategy pubblicato mercoledì scorso.

In particolare il rapporto lancia un allarme ben preciso: “potrebbe essere molto difficoltoso vincere, o addirittura si potrebbe perdere, una guerra contro la Cina o la Russia. Gli Stati Uniti sono particolarmente a rischio di venire sopraffatti qualora le forze armate fossero costrette a combattere contro due o più Paesi simultaneamente”.

La commissione, formatasi a luglio del 2017, è composta da esponenti bipartisan del Congresso Usa con la partecipazione anche di elementi nominato dal Senato e dalla Casa Bianca. Ne fanno parte, tra gli altri, il senatore John McCain (Rep), Jack Reed (Dem) membro della commissione senatoriale sui servizi armati e Mac Thornberry (Rep), presidente della stessa commissione ma per la Casa Bianca.

L’allarme della Commissione Usa

Il documento finale, dopo più di un anno di lavori, è particolarmente allarmante per la sicurezza Usa. Si legge infatti che la superiorità delle forze armate americane non è più garantita e pertanto le implicazioni per la sicurezza e gli interessi americani sono gravi.

“Inoltre – prosegue il rapporto – non sarebbe saggio né responsabile non aspettarsi che gli avversari tentino un attacco debilitante di tipo cinetico, cyber o di altra natura contro il territorio americano mentre cercano di sconfiggere le nostre forze armate dislocate all’estero”.

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Allarmi di questo tipo non sono nuovi a Washington. Nel recente passato più di un organismo, che sia il Pentagono o qualche analista del Congresso, ha evidenziato le cattive condizioni in cui versano le forze armate Usa, soprattutto per quanto riguarda proprio la capacità di essere presenti efficacemente in diversi teatri simultaneamente senza gravare sulla già debilitata capacità di rotazione di uomini e mezzi.

Questo rapporto però giunge in un particolare momento politico: le elezioni di mid-term, che hanno consegnato la Camera dei Rappresentanti ai democratici mentre il Senato è saldamente in mano ai repubblicani, fungono da spartiacque per la futura politica della Casa Bianca in merito alle spese militari.

Si prevede, infatti, che i Dem daranno battaglia in sede parlamentare per quanto riguarda l’approvazione del bilancio per l’anno fiscale 2020 che si allineerà nel solco dell’aumento delle spese per la Difesa già delineato dalla Casa Bianca sin dagli inizi dell’esecutivo Trump.

La situazione è davvero così allarmante?

Prima di analizzare lo stato delle forze armate Usa per capire quanto di vero ci sia nell’allarme lanciato dalla National Defense Strategy Commission, occorre fare una precisazione sul bilancio americano per la Difesa.

Nel 2017 gli Stati Uniti hanno speso circa 642,9 miliardi di dollari posizionandosi saldamente al primo posto nella classifica delle spese militari a livello globale. La Cina e la Russia, nello stesso anno di riferimento, hanno speso rispettivamente 192,5 miliardi (secondo posto) e 47 miliardi (sesto posto).

Questi numeri però non devono fuorviare il lettore, che potrebbe arrivare a facili, ma sbagliate conclusioni. Innazitutto la Cina ha dimostrato un forte incremento lineare delle spese per la Difesa consolidatosi, salvo piccole flessioni, nell’ultima decade: Pechino del resto ha varato una politica di riarmo che punta non solo sull’aumento del numero di asset importanti come missili balistici, portaerei e bombardieri, ma soprattutto sull’aumento della qualità degli stessi. Testate Hgv, missili ipersonici, progetti per portaerei a propulsione atomica con catapulte E/m, nuove armi laser, bombardieri, l’elenco è lungo.

La Russia dal canto suo sta razionalizzando il budget per la Difesa a fronte di una economia traballante anche per il regime sanzionatorio impostole dalla comunità internazionale a seguito della questione ucraina. Con sforzi che chi scrive considera enormi sta però modernizzando il proprio arsenale balistico, l’unico vero strumento di deterrenza che ha Mosca, e implementando la sua flotta, soprattutto per quanto riguarda la componente subacquea considerata ancora dalla Russia come la punta di lancia della Marina Militare. Al netto di numerosi tagli di programmi, come quello del missile intercontinentale mobile Rubezh, e a fronte del rinvio di costruzioni navali o altri progetti di tipo aeronautico – come quello del nuovo bombardiere stealth Pak-Da – Mosca ha comunque saputo puntare saggiamente su armi che, benché siano ritenute altamente tecnologiche e innovative, quasi “non convenzionali” in senso lato, rappresentano il giusto compromesso tra costi ed efficacia strategica: i missili ipersonici, i missili da crociera a propulsione atomica, ed il “supersiluro” Status-6 sono lì a testimoniare questa politica. 

Gli Stati Uniti, che di certo non hanno perso il vantaggio nel campo delle costruzioni aeronautiche, di quelle navali o di quelle dei missili balistici, soffrono però un ritardo nel settore dei missili ipersonici che con ogni probabilità saranno le armi dei conflitti del futuro e sono alle prese con un grave problema di manutenzione generale delle Forze Armate, soprattutto in campo aeronautico come abbiamo avuto modo di analizzare in passato.

A prima vista potrebbe sembrare una contraddizione ma in realtà bisogna pensare che Washington, a differenza di Mosca e Pechino, è l’unica potenza globale sulla scena odierna e le sue forze armate sono impiegate su diversi fronti contemporaneamente con dispendio di uomini e di mezzi. 

La Russia, se escludiamo l’intervento in Siria, non effettua operazioni militari all’estero se non per l’invio di qualche consigliere militare in teatri di crisi come potrebbe essere quello libico. La Cina, se escludiamo la questione della costruzione di isole artificiali e loro militarizzazione nel Mar Cinese Meridionale, non impiega le proprie forze armate al di fuori del proprio territorio nazionale, fatto salvo per le missioni Onu, che comunque sono di basso profilo militare rispetto a un conflitto aperto come quello afghano o siriano.

Le operazioni all’estero costano, soprattutto quando, come gli Stati Uniti, si ha una flotta che fa capo a numerose unità maggiori come le portaerei (ne hanno in linea 11 di cui tre attualmente in mare) o i sottomarini a propulsione nucleare. Non avere la necessità di essere presenti attivamente in diversi teatri mette Russia e soprattutto, considerato il bilancio, la Cina in una posizione di vantaggio riguardo alla possibilità di razionalizzare meglio le spese per la Difesa.

Una scomoda eredità

L’allarme quindi, se visto con gli occhi del Pentagono, è fondato. Con questo livello di spesa militare a cui fa seguito un grave indebolimento della capacità di operare su più fronti simultaneamente le forze armate Usa non sarebbero in grado di sostenere quello che definiscono un major conflict con la Russia o con la Cina, tantomeno se contemporaneamente.

Il rapporto cita esplicitamente l’incapacità per gli Stati Uniti di affrontare e soverchiare militarmente una possibile invasione cinese di Taiwan o quella della Corea del Sud da parte del Nord.

L’attuale stato in cui versano le forze armate Usa ha una causa ben precisa, individuata dalla stessa commissione congressuale: la politica di tagli al bilancio voluta dalle amministrazioni di Obama.

Il Segretario della Difesa James Mattis infatti sostiene, non a torto, che per riparare ai danni apportati allo strumento militare americano dalla politica di Obama serva un aumento netto annuale che varia dal 3 al 5% dei finanziamenti per la Difesa. 

Liquidità che deve essere, come detto dal Segretario, costante e non soggetta a variazioni annuali affinché i programmi di riarmo ma soprattutto quelli di manutenzione possano garantire l’aumento dell’efficacia delle forze armate Usa e per poter permetter a Washington di fare fronte alle nuove minacce rappresentate sia dal cyber warfare sia dalla nuova “corsa allo spazio” lanciata dai suoi avversari. 

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