Ecuador, Cile, Argentina: da tre Paesi dell’America meridionale soffia un vento di rivolta. In un mondo sempre più caldo e inquieto il mondo latinoamericano è un epicentro di tensioni da tenere sotto osservazione. Il bersaglio, adesso come vent’anni fa e, ancora prima, negli anni conclusivi della Guerra fredda, è l’abbraccio sempre più stretto tra i governi della regione e le logiche economiche del neoliberismo, incarnate principalmente dalle grandi istituzioni finanziarie come il Fondo monetario Internazionale. Anima della protesta quella classe media che si era negli anni scorsi sentita abbandonata dai governi populisti di sinistra consentendo l’elezione di Mauricio Macri in Argentina, Sebastian Pinera in Cile e Jair Bolsonaro in Brasile. Oggi nuovamente in fibrillazione per l’imposizione di dure condizioni a causa delle misure di austerità introdotte dai governi o concordate con l’Fmi.

In due casi, Ecuador e Cile, la rivolta è esplosa violenta, improvvisa e dilagante, provocando una reazione dura delle autorità, con morti negli scontri che ad esempio non si sono verificati nelle ben più mediatiche rivolte di Hong Kong. Nel terzo caso, l’Argentina, la rivolta è politica ed elettorale: le elezioni di domenica prossima potrebbero incoronare il peronista Alberto Fernandez  e mandare al tappeto Mauricio Macri e le sue politiche economiche giudicate disastrose.

Ecuador, Moreno contro Correa

Lenin Moreno è letteralmente sotto assedio e non ha potuto portare fino in fondo il decreto 883 con cui l’esecutivo di Quito imponeva a livello sociale una serie di misure di austerità fortemente penalizzanti per assecondare le richieste di riforme strutturali dell’Fmi: l’aumento dei biglietti del bus e l’abolizione dei sussidi sul carburante, vera e propria forma di welfare aggiuntivo per gli abitanti di un Paese ricco di materie prime ma non di centri di trasformazione e raffinerie, ha generato un malcontento trasformatosi in ampi moti di protesta, rinfocolati dall’ex Presidente Rafael Correa, capo dello Stato fino al 2017 entrato in piena polemica con Moreno, suo ex vicepresidente.

Correa ha costruito le politiche più equilibrate tra quelle messe in atto dalle “rivoluzioni” populiste sudamericane, contribuendo ad alleviare i casi di povertà estrema ed esclusione sociale, riducendo la dipendenza dall’estero di uno Stato costretto ad adottare il dollaro come valuta e evitando le gravi tensioni che hanno scosso nazioni come il Venezuela.

Moreno ha, poco dopo il suo insediamento, ribaltato completamente la sua linea, rinforzato i pacchetti di politiche austeritarie e liberiste e impostato una strategia ben esemplificata dall’ex consulente di Correa, l’italiano Samuele Mazzolini: “Da una parte, esenzioni, deduzioni e amnistia fiscale per i grandi capitali, dall’altra una riduzione senza pari dell’apparato statale con tagli al personale che andranno a colpire i servizi essenziali, insieme a un attacco diretto ai diritti lavorativi, sia nel settore pubblico sia in quello privato”.

Cile, torna il coprifuoco

Sono focolai apparentemente locali a scatenare grandi incendi, in diversi casi. Anche in Cile l’origine delle recenti proteste che stanno sconvolgendo la nazione e hanno causato almeno sette morti è legata alla rivolta contro una misura che va a colpire, materialmente ma soprattutto simbolicamente, la vita quotidiana di milioni di cittadini: l’incremento dei prezzi dei biglietti della metropolitana di Santiago decisi dall’esecutivo di centro-destra di Pinera, decisione che ha generato la rabbia di parte della popolazione, già esasperata per il carovita della capitale. “Siamo in guerra contro un nemico potente”, ha detto il presidente, dimostrando sorpresa per un’esplosione di collera popolare accesasi senza preavviso.”Un nemico implacabile – ha aggiunto – che non rispetta niente e nessuno e che è pronto a fare uso della violenza e della delinquenza senza alcun limite”.

La stabilità sociale del Paese è messa a rischio dalle crescenti disuguaglianze economiche e l’esercito ha imposto il coprifuoco per la prima volta dall’era di Augusto Pinochet. Non si può confrontare, chiaramente, la situazione attuale con il periodo più buio della storia cilena sotto il piano politico. Ma in campo economico l’attuale governo adotta ricette assai simili a quelle messe in atto ai tempi del regime, che con i consigli del Premio Nobel Milton Friedman e dei suoi “Chicago Boys”, tra cui spiccava il padre di Pinera e il cui ultimo esponente è l’attuale ministro dell’Economia brasiliano Paulo Guedes , sviluppò una radicale trasformazione neoliberista dell’economia.

Tagli fiscali, sforbiciate allo stato sociale, privatizzazioni e deregulation portarono nel 1982 al crollo dell’economia cilena, come ben spiega l’analista Naomi Klein in Shock Economy: “Il debito esplose, il Paese ripiombò nell’iperinflazione e la disoccupazione salì al 30 per cento, dieci volte più alta che ai tempi di Allende […] L’unica cosa che impedì il collasso economico completo del Cile nei primi anni Ottanta fu il fatto che Pinochet non privatizzò mai la Codelco, la compagnia mineraria del rame nazionalizzata da Allende”. I cileni, anche dopo la ritrovata stabilità, non hanno dimenticato l’impatto enorme di questa lezione. Il governo ha dovuto fare dietrofront.

In Argentina Fernandez insidia Macri

Le primarie argentine di agosto hanno certificato che il peronista di sinistra Fernandez è in testa su Mauricio Macri nella volata verso le elezioni presidenziali. Macri porta sulle sue spalle il fardello del fallimento del tentativo di aprire Buenos Aires agli investimenti esteri con una massiccia ristrutturazione economica. Si stima che a fine anno i poveri saranno il 40% della popolazione, mentre negli ultimi dodici mesi il loro numero è aumentato di tre milioni di persone.

Macri ha imposto pacchetti di austerità per ottenere dall’Fmi un prestito da 57 miliardi di dollari, ma senza successo. Analogo insuccesso hanno fatto registrare politiche che hanno condotto alla sanatoria per il rientro dei capitali più grande della storia del capitalismo (110 miliardi di dollari) ed emissioni di titoli a scadenza secolare capaci di produrre cedole annue del 7%, una batosta per le finanze argentine già assediate dalle operazioni spericolate dei fondi internazionali loro creditori (guidati dall’americano Elliott). La povertà in aumento, la disoccupazione in doppia cifra, l’inflazione galoppante hanno disegnato uno “scenario greco”. E ora l’Argentina, terra che potrebbe produrre cibo per sfamare 450 milioni di persone, si trova nella condizione di dover affrontare problemi di carenza alimentare e malnutrizione.

Il destino di Macri appare segnato, e nelle urne argentine potrebbe concretizzarsi la più significativa delle rivolte che stanno plasmando una nuova America Latina, ponendo fine all’inerzia liberale iniziata proprio nel Paese del Cono Sud quattro anni fa. Le classi medie urbane dei Paesi latinoamericani chiedono giustizia economica e guidano la protesta in tutto il continente, alla testa di una platea ampia ed eterogenea (gruppi indigeni, chiese, movimenti ruralisti e così via) che disegna settimana dopo settimana il fronte contro l’austerità.

 





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