I rapporti fra Russia e Israele altalenano fra la forte collaborazione e l’aperta ostilità sin dal 1948, ma il collasso dell’Unione Sovietica e il graduale disinnescarsi della questione palestinese hanno condotto ad una nuova epoca politica il cui apogeo sembra esser stato raggiunto con l’ascesa di Vladimir Putin e di Benjamin Netanyahu alla guida dei due Paesi.

Nonostante i sogni neo-eurasiatisti russi abbiano portato il Cremlino a riportare il focus sulle polveriere centro-asiatica e mediorientale seguendo una direttrice apparentemente filo-islamica e anti-imperialista, quest’ultima intesa nel senso di antioccidentale, il più significativo avvicinamento diplomatico è avvenuto con Israele.

Putin sta lavorando a pieno ritmo sull’eredità da lasciare ai posteri in vista del 2024, e sembra avere una visione molto limpida sul ruolo dello Stato ebraico: dovrà essere integrato nel mondo russo.

Due popoli, un destino

Quasi in concomitanza all’annuncio che Tel Aviv potrebbe presto raggiungere un accordo di libero scambio con l’Unione economica eurasiatica, il presidente russo ha partecipato al congresso del Keren Hayesod, la quasi centenaria istituzione che si occupa del finanziamento di Israele e del sionismo, tenutosi a Mosca il 17 settembre, rilasciando delle dichiarazioni di carattere storico.

Putin ha infatti sostenuto che Israele dovrebbe essere considerato “un Paese russofono” poiché casa di quasi due milioni di persone provenienti da Stati ex sovietici, Russia in primis, che contribuiscono a mantenere solidi e profondi i rapporti fra i due popoli e che nel tempo avrebbero dato vita ad una “famiglia comune” legata da uno stesso destino, a tratti anche macchiato da tragedie.

Le parole di Putin riflettono un chiaro progetto geopolitico e culturale: fare di Israele un’estensione del cosiddetto mondo russo, ossia l’insieme di quei Paesi che, pur distanti sotto certi aspetti, si identificano nella civiltà della Terza Roma. Mentre il paragrafo europeo del millenario mondo russo volge al termine, fatta eccezione per la Serbia, per via dell’occidentalizzazione e dell’inglobamento della periferia orientale e balcanica del Vecchio continente nell’orbita euroamericana, la partita è ancora lontana dal concludersi in Asia ed è appena stata aperta in Israele.

Gli ingredienti per il successo ci sono: circa il 20% della popolazione israeliana ha origini russe e la stragrande maggioranza di questa comunità continua a mantenere e conservare una doppia identità in luogo di immedesimarsi esclusivamente in quella ebraica. Il senso di coesione è stato alimentato negli anni dalla diffusa discriminazione presente nella società e nel mondo del lavoro, trasformando i quasi due milioni di ebrei ex sovietici in un blocco elettorale impossibile da ignorare per i grandi partiti e che viene sfruttato dal Cremlino per esercitare pressione sulla politica.

Legami sempre più forti

Il malcontento serpeggiante fra gli ebrei russofoni è stato colto soprattutto dalla destra, in particolar modo da Netanyahu. Mentre i rapporti con gli Stati Uniti si sono deteriorati durante l’era Obama, quelli con la Russia sono migliorati costantemente e gradualmente. Putin è il politico straniero con il quale Netanyahu ha avuto maggiori incontri dal 2015 ad oggi: oltre 12.

Il voto russo si è dimostrato nel tempo un ago della bilancia decisivo nel determinare vittorie elettorali e non deve sorprendere che Netanyahu, ma anche Avigdor Lieberman (nato in Moldavia), abbia tradizionalmente prestato molta attenzione agli interessi dei correligiosi russofoni e di Mosca.

Secondo i sondaggi ufficiali, la comunità ebreo-russa è posizionata grosso modo su valori del conservatorismo di destra e simpatizza in larga parte per Likud; ciò spiegherebbe l’importanza per Netanyahu di mantenere ottime relazioni con Putin. Quest’ultimo punto è particolarmente significativo in quanto aiuta a comprendere come, nonostante la divergenza di interessi e visioni dei due paesi in Medio Oriente, la Russia sia riuscita a imporre il proprio volere sulla Siria per quanto riguarda la permanenza al potere di Bashar al Assad e a tutelare i propri interessi a Teheran nonostante la guerra sussidiaria in corso con Tel Aviv e Riad, senza comunque incrinare i rapporti con lo Stato ebraico.

Politica estera a parte, i sistemi economici e le culture dei due Paesi sono sempre più interconnessi. Fra il 2017 e il 2018 l’interscambio commerciale bilaterale è aumentato del 9%, Tel Aviv non ha voluto aderire al regime sanzionatorio legato alla questione ucraina, i russi rappresentano la seconda nazionalità più numerosa nel settore turistico israeliano, le importazioni di petrolio grezzo sono principalmente di origine russa, e sono inoltre attive delle collaborazioni molto importanti nel settore della ricerca medica, dello spazio, dell’educazione universitaria e della tecnologia.

Ma ciò che più conta è che l’influsso russo sta generando profonde trasformazioni nella società israeliana, dalla cucina alle arti, dai costumi ai valori. Il russo è, oggi, la terza lingua più parlata nel Paese, sia a livello popolare che nelle stanze dei bottoni. Il Cremlino ha dimostrato lungimiranza nel saper dirigere e modellare le traiettorie culturali di un’ondata migratoria che altrimenti non avrebbe prodotto effetti tanto rilevanti.

Difficilmente Israele entrerà a far parte integralmente del mondo russo, ma è lecito ipotizzare che la crescente influenza culturale e politica giocata da Mosca nel Paese, e nel Medio oriente in generale, possa portare ad una maggiore convergenza sui principali dossier internazionali – se adeguatamente sfruttata – anche a detrimento del primo e più importante alleato di Tel Aviv sin dalla fondazione del 1948: gli Stati Uniti.





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