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La Turchia entra a gamba tesa nella rotta nel Mediterraneo Centrale che finora ha portato in Italia oltre 26 mila migranti irregolari. Numeri alti ma tutto sommato contenuti rispetto ai 170 mila arrivi del 2014, annus horribilis per le migrazioni illegali nel nostro Paese. Numeri che potrebbero tuttavia aumentare se la Turchia dovesse aprire “rubinetto” dei migranti che Muammar Gheddafi usava spesso e con disinvoltura per ricattare il governo di Roma. Il ministero della Difesa turco ha pubblicato un’immagine sfocata e apparentemente innocua, ma che ben rappresenta la situazione sul terreno: militari turchi in tuta mimetica a bordo di una motovedetta libica nelle acque del porto di Tripoli. Come sottolinea Agenzia Nova, non si tratta una motovedetta qualunque: è la Ubari 660, gemella della motovedetta Fezzan 658, entrambe classe Corrubia (27 metri, con una larghezza di 7 e un pescaggio di 2,5 metri) donate dall’Italia. La Turchia, in altre parole, mette gli stivali a bordo delle imbarcazioni che l’Italia ha regalato alla Libia per frenare i flussi migratori illegali. E lo fa legalmente, almeno secondo il suo punto di vista, perché lo prevedono gli accordi sottoscritti nel novembre del 2019 tra il Governo di accordo nazionale (Gna), l’organo esecutivo di Tripoli riconosciuto dalle Nazioni Unite guidato dall’oggi dimissionario Fayez al Sarraj, e l’esecutivo di Ankara fedele al presidente-sultano Recep Tayyip Erdogan.

Il ruolo di Bashaga

Con debole Sarraj ormai al capolinea, la Turchia ha un bisogno disperato di riportare l’ordine a Tripoli. Senza il nemico Khalifa Haftar alle porte, le milizie sono tornate a taglieggiare politici, imprenditori, giornalisti e comuni cittadini. Per capire l’aria che tira nella capitale libica basti sapere che il capo dell’Ente libico per i media, Mohamed Omar Baaio, è stato arrestato arbitrariamente dalla Brigata dei rivoluzionari di Tripoli, milizia di orientamento islamista, per aver osato definire il conflitto contro Haftar “una guerra civile”. Ankara ha bisogno di un uomo forte, in grado di tenere a bada i gruppi armati e al tempo stesso di portare avanti i suoi interessi: essenzialmente petrolio, gas e appalti nella ricostruzione. L’identikit corrisponde a Fathi Bashaga, originario della “città-Stato” di Misurata, molto apprezzato in Turchia e dalla galassia della Fratellanza musulmana, pur non facendone ufficialmente parte. È in questo contesto che vanno lette le purghe del ministero dell’Interno, eseguite dalla procura di Tripoli in tandem con la potenti milizie Rada, contro capi milizia, viceministri, segretari particolari, funzionari e dirigenti di compagnie statali. Tra le vittime illustri della scure anti-corruzione cui spicca il nome di “Bija“, al secolo Abd al Rahman Milad, ufficiale della Guardia costiera libica accusato di traffico di esseri umani e di contrabbando di carburante che mette in imbarazzo l’Italia. Milad è infatti uno dei leader chiave delle potenti milizie di Zawiya, città costiera dove partono i migranti e dove viene raffinato il petrolio estratto in Fezzan, schierate in prima linea nella rivoluzione contro Gheddafi nel 2011 e contro le forze del generale Khalifa Haftar nel 2019.

Rischio mercenari

La strategia muscolare della Turchia sta portando i suoi primi frutti in Libia, ma Ankara ha necessità di capitalizzare quanto prima l’investimento fatto. L’economia in Turchia è in picchiata, così come il valore della lira turca, e i soldi forniti dal Qatar sono tanti ma non infiniti. Circa un centinaio di combattenti siriani portati dai turchi ha protestato ieri all’interno del campo di Souk Al Khamis a Tripoli per denunciare che i loro stipendi (circa 900 euro al mese) sarebbero stati rubati dal comandante, tale Abu al-Abbas al-Mara. Fonti del sito web d’informazione Libya Akhbar parlano di un raduno di combattenti siriani appartenenti a quella che è conosciuta come la Divisione Mu’tasim, affiliata alla milizia filo-turca Brigata Hamza, inviata da Ankara a sostegno del Consiglio presidenziale. Senza stipendio e senza lavoro, dal momento che il conflitto contro il generale Khalifa Haftar è congelato, i combattenti siriani rischiano ora di infoltire le fila dei migranti che salpano verso l’Italia, spesso con la complicità della Guardia costiera libica collusa con i trafficanti, come insegna il caso di Bija.

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