Il presidente della Tunisia, l’inflessibile Kais Saied, detto “Robocop” per il suo stile rigido da professore di diritto, ha prolungato “fino a nuovo avviso” il golpe morbido messo a segno lo scorso 25 luglio e che sarebbe dovuto durare solo un mese. Con uno stringato comunicato diffuso a pochi minuti dalla scadenza dei trenta giorni, l’amministrazione di Cartagine ha liquidato in poche righe le speranze di chi sperava in una rapida soluzione della crisi politica tunisina: “Il capo dello Stato – si legge nel testo – ha emesso un’ordinanza presidenziale che estende le misure eccezionali adottate ai sensi dell’Ordinanza presidenziale numero 80 del 2021 relative alla sospensione delle competenze dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo (Arp, il parlamento monocamerale) e alla revoca dell’immunità parlamentare di tutti i suoi membri, fino a nuovo avviso. Nei prossimi giorni il presidente della Repubblica rivolgerà un discorso al popolo tunisino”.
Tradotto dal linguaggio burocratico tunisino, significa che a un mese esatto dalla sospensione del parlamento e dal licenziamento del primo ministro Hichem Mechichi, in Tunisia vige a tutti gli effetti una dittatura costituzionale a tempo indeterminato. Saied, infatti, governa per decreti presidenziali con l’appoggio degli apparati militari e, apparentemente, di gran parte della popolazione tunisina stanca di una rivoluzione che doveva cambiare tutto e non ha cambiato granché. Ma il presidente può davvero fare tutto questo? Di fatto si: la Corte costituzionale, l’unico organismo super partes sulla questione, non è mai stata completata e quindi nessuno ha l’autorevolezza per esprimersi al riguardo.
Un rinascimento fallito
In questo nuova realtà, il più grande sconfitto è senza dubbio Ennahda, il partito musulmano della “Rinascita” tunisina ininterrottamente al potere dal 2011. La formazione politica guidata da Rachid Ghannouci, lo “sceicco” che presiede l’Arp e che comanda il partito di maggioranza relativa in parlamento, è considerata la principale responsabile della profonda crisi politica, economica e sanitaria che attraversa il Paese. Dopo aver gridato al colpo di Stato, Ghannouci ha fatto retromarcia e si è detto pronto a “fare sacrifici” per il bene della democrazia tunisina.
Ma intanto il movimento musulmano è scosso un vero e proprio terremoto: tutti e 32 i membri del comitato esecutivo si sono dimessi (o meglio, sono stati licenziati), aprendo la strada a una scissione o un rinnovamenti dei vertici. I rivali all’interno del partito come Abdellatif Mekki accusano l’anziano leader 80enne di aver governato il partito alla stregua di un dittatore, in contraddizione con lo spirito della realtà collettiva della “Shura” di Ennahda.
In effetti, un avvicendamento ai vertici di Ennahda sarebbe dovuto avvenire da tempo, ma il congresso del partito non si è mai tenuto proprio per l’opposizione della classe dirigente al potere, decisa a mantenere lo status quo. Il rischio ora è che la componente più radicale del partito islamico possa passare alla lotta armata per combattere il “golpe morbido” di Saied, con il rischio di spillover” nei Paesi vicini. È probabilmente questo uno dei motivi delle frequenti visite (ben tre in un mese) a Tunisi del ministro degli Esteri algerino, Ratmane Lamamra.
Allarme economia
Sarebbe tuttavia ingeneroso addossare tutte le colpe del fallimento della “primavera tunisina” al partito affiliato alla Fratellanza musulmana. Secondo Soufiane Ben Farhat, giornalista, scrittore e analista politico tunisino, ci sono troppe anomalie del sistema politico tunisino. “Dalla rivoluzione del 2011 ad oggi abbiamo sempre avuto un presidente eletto a suffragio universale con prerogative più o meno ristrette, anche se eletto con un ampio consenso, e un capo del governo, nominato dal presidente, con ampi poteri: questo ha creato problemi. Il sistema politico tunisino è una trappola”, ha detto il giornalista ad Agenzia Nova, avvertendo che il vero rischio ora è l’economia.
“Abbiamo bisogno di un uomo come Mario Draghi, di una personalità con un forte background economico che abbia il consenso sia della destra che della sinistra”, ha aggiunto ancora Ben Farhat. Non è un caso che la stampa tunisina ventili l’ipotesi della nomina a primo ministro del governatore della Banca centrale della Tunisia, Marouane al Abbassi, o dell’economista Hakim Ben Hammouda, già ministro delle Finanze dal 2014 al 2015. Per Amine Ben Gamra, revisore dei conti e membro dell’Ordine dei contabili della Tunisia, l’attuale status quo in Tunisia rischia di compromettere le trattative con il Fondo monetario internazionale (Fmi) per un nuovo prestito di 4 miliardi di dollari, ma anche di bruciare i 700 milioni di dollari a disposizione del Paese attraverso la recente emissione di nuovi Diritti speciali di prelievo (Dsp) disposta dall’istituto di Bretton Woods.
L’esperto suggerisce di formare un nuovo governo per compiere i passi necessari con i partner internazionali, e di farlo quanto prima. “Bisogna fare presto, perché i primi ad arrivare sono solitamente primi a essere serviti. E i ritardatari avranno solo gli occhi per piangere”, ha concluso Ben Gamra in un editoriale sul sito web “Kapitalis”.
Un partito del presidente?
Secondo Ben Farhat, attorno al presidente “ci sono molti movimenti che dicono di stare dalla sua parte tra i cosiddetti ‘movimenti rivoluzionari’. Ma lui è un uomo di centrodestra. I tunisini, come gli italiani, sono di destra quando guardano al proprio aspetto economico, ma al livello delle idee sono piuttosto a sinistra, vogliono cioè essere liberi. Saied deve ora dimostrare da che parte vuole stare”.
L’ultimo sondaggio di Emrhod Consulting, commissionato dai media Business News e Attessia e pubblicato mercoledì 28 luglio 2021, garantiva alle decisioni di Saied un approvazione dell’87 per cento. È curioso che anche l’ex presidente Zine El-Abidine Ben Ali godeva di un sostegno simile dopo il colpo di stato del novembre 1987. Il tempo dirà se Saied è un brillante statista o un aspirante dittatore. Sta di fatto che se domani si votasse, Saied non avrebbe un partito che lo rappresenterebbe e probabilmente stravincerebbe Abir Moussi, la leader del Partito dei costituzionalisti liberi (Pdl) che si rifà apertamente al passato regime. I sondaggi dicono in sostanza quello che non si può dire nei salotti buoni della diplomazia internazionale: la rivoluzione dei gelsomini e più in generale l’Islam politico hanno fallito e la popolazione tunisina vuole regime presidenziale forte e autoritario.