Quella regione del Corno d’Africa chiamata Banaadir fu rinominata Somalia dall’esploratore italiano Luigi Robecchi Bricchetti nel lontano 1892. Tra i primi europei (se non il primo assoluto) ad esplorare quel remoto territorio, Bricchetti – naturalista e geografo – aprì la strada per l’arrivo di compagnie private che poi, nel 1905, cedettero la regione costiera intorno a Mogadiscio allo Stato creando così la colonia della Somalia italiana. Successive vicissitudini legate alla Grande Guerra ed accordi con l’altra potenza coloniale contigua, il Regno Unito, che condivideva il dominio su quella parte di mondo, videro l’espansione del territorio della nostra colonia sino alla Guerra d’Etiopia, nel 1936, che portò alla costituzione dell’Aoi, l’Africa Orientale Italiana.
Dopo il secondo conflitto mondiale, i vincitori e la neonata Onu, decisero di affidare l’amministrazione provvisoria della Somalia all’Italia ma sotto la supervisione della Gran Bretagna. Reggenza che terminò, secondo gli accordi, nel 1960 quando fu dichiarata l’indipendenza unendo l’ex colonia italiana al Somaliland britannico.
La storia dell’Italia in Somalia potrebbe dirsi conclusa in quel momento, fatto salvo per la presenza di meno di 2mila italiani, in maggior parte ex coloni, che restarono in quelle terre al termine dell’amministrazione italiana. Presenza che diminuì a meno di mille a cominciare dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso, con il concomitante scoppio della guerra civile che insanguina la Somalia ancora oggi – se pur con i dovuti distinguo – nonostante la creazione, nell’agosto del 2012, del primo governo centrale permanente dai tempi di Siad Barre, che assunse il potere nel 1969 manu militari.
Gli anni ’90 vengono ricordati per le missioni Unosom, e per quanto riguarda la nostra storia, la missione Unosom II che ha visto l’intervento diretto delle nostre Forze Armate in Somalia nel quadro della forza di Peacekeeping atta a creare le condizioni di sicurezza per la distribuzione degli aiuti umanitari.
Per gli americani quegli anni, dal marzo del 1993 al marzo del 1995, rappresentano una cocente sconfitta militare e diplomatica, per l’Italia si possono riassumere con due solo parole: “Checkpoint Pasta”.
Non è questa la sede per ricostruire i drammatici fatti di quello scontro avvenuto il 2 luglio del 1993 che costò la vita a 3 nostri soldati e vide il ferimento di altri 36, ma quella missione, che per noi si chiamava “Ibis”, rappresentò l’ultimo vero impegno politico/militare italiano nella nostra ex colonia. Come dimenticare poi, a margine di questa vicenda, la tragica morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, assassinati a Mogadiscio il 20 marzo del 1994 in circostanze mai del tutto chiarite.
Da allora l’Italia ha scelto – come peraltro la maggior parte delle nazioni occidentali – la via del “soft power”, se così possiamo definirla, per cercare di avere ancora un filo diretto con la Somalia, soprattutto per venire incontro ai bisogni essenziali di quel martoriato Paese e per soddisfare le richieste in tal senso dell’Onu.
L’impegno italiano in Somalia è costato, approssimativamente, 270 milioni di euro in 20 anni, secondo i dati del ministero degli Esteri. La Farnesina fa sapere che nel 2016 i progetti di sviluppo, finanziati per un totale di 11 milioni 800 mila euro, erano 45, di cui quelli relativi a servizi e infrastrutture sociali assorbivano la maggior parte delle risorse (per un ammontare di 9 milioni 300 mila); poco più di un milione era devoluto per servizi ed infrastrutture economiche, ed un totale di un milione e mezzo veniva destinato agli aiuti umanitari propriamente detti.
La strategia italiana per la Somalia si basa su tre direzioni di approccio: il supporto alla popolazione attraverso i programmi di emergenza nei settori della sanità e degli aiuti alimentari, il supporto alle istituzioni, con programmi di ricostruzione e implementazione delle capacità governative (anche militari), ed il sostegno all’interno della comunità internazionale, sia a livello bilaterale sia nel quadro dell’Ue e di altre organizzazioni internazionali.
Nel corso di questi ultimi anni il sostegno italiano non è cessato nonostante l’acuirsi delle violenze interne di matrice islamica. Al Shabab, infatti, ha ripreso vigore nel contrasto alle forze governative e a quelle del contingente dell’Amisom, la missione in Somalia dell’Unione Africana a cui partecipano Uganda, Burundi, Etiopia, Kenia e Gibuti, che ha cominciato il ritiro a novembre dell’anno scorso contestualmente al passaggio di consegne alla forze di sicurezza somale.
L’Italia, oltre al sostegno umanitario propriamente detto, ha fornito e tutt’ora fornisce supporto diretto con mezzi ed addestramento alle Forze Armate somale: nell’ambito della missione europea EUTM (European Union Training Mission) il Ministero della Difesa ha donato nel corso di questi ultimi anni materiale per equipaggiare le Snaf (Somali National Armed Forces) che spazia da divise ed elmetti sino alla consegna di 54 veicoli militari da trasporto (compresi alcuni Mav 5) o di pattugliatori marittimi leggeri. Lo scorso giugno, ad esempio, grazie ad accordi bilaterali presi tra il dicastero alla Difesa ed il governo somalo e nel quadro della missione Eucap “Nestor”, 4 vascelli di questo tipo provenienti dalla Marina Militare sono entrati in servizio nelle Forze Armate di Mogadiscio per cominciare a formare un primo nucleo marittimo autoctono di contrasto all’attività di pirateria che si svolge regolarmente nelle acque prospicienti il Corno d’Africa. Attività di contrasto che ha il suo attore principale nella missione europea “Atalanta” a cui il nostro Paese partecipa con 2 unità navali e 2 elicotteri tipo AB-212 imbarcati (a rotazione) e impiegando un totale di 407 uomini (con una presenza media di 155) per una spesa, annuale, di circa 26 milioni di euro.
La missione EUTM, invece, impiega circa 18 mezzi terrestri ed un numero massimo di 123 uomini per fornire inquadramento, consulenza e sostegno alle autorità somale per la costituzione delle proprie Forze Armate operando in stretta collaborazione con gli altri attori internazionali presenti nella regione, in particolare l’Onu, l’Amisom ma anche con gli Stati Uniti, che in Somalia, ancora a novembre dell’anno scorso, impiegavano circa 500 soldati non solo per l’addestramento delle truppe governative, ma anche in funzione di contrasto al terrorismo islamico: la presenza statunitense nell’area è infatti aumentata in concomitanza con l’insorgere della guerriglia da parte dei miliziani di al-Shabab e dell’Isis, vedendo impiegati anche asset di un certo livello come le aerocannoniere AC-130H “Spectre” a supporto delle operazioni di forze speciali.
La nostra presenza militare in Somalia, che in totale ammonta a 130 uomini, è inquadrata nell’Italian National Support Element rientrante nell’Eutm già citato e che con la Cellula di Cooperazione Civile e Militare (Cimic) provvede anche al ripristino e alla creazione di infrastrutture civili nel Paese. L’ospedale di Mogadiscio “Forlanini”, edificato nel 1928 e distrutto nel corso della guerra civile, è in corso di ricostruzione grazie ai fondi stanziati dal Governo italiano e amministrati dal Cimic, che provvede anche alla costruzione di pozzi, a specifici programmi di prevenzione di malattie infettive o sessualmente trasmissibili, a coordinare l’attività di aiuto umanitario e anche a ricostruire, se pur in modo limitato, le infrastrutture somale colpite dagli attacchi di al-Shabab.
I rapporti tra i due Paesi, nonostante il costante pericolo di un crollo dei governativi sotto gli attacchi della guerriglia, paiono comunque stretti: incontri ad alto livello tra le massime cariche politiche che si sono succedute in questi ultimi anni hanno sviluppato lo stringersi di accordi bilaterali per lo sviluppo e crescita in una vasta gamma di settori. L’Italia si è fatta promotrice anche di conferenze internazionali per la Somalia a Istanbul, Roma e Londra che hanno portato alla creazione di un organismo interministeriale somalo per la coordinazione degli aiuti internazionali.
Il nostro Paese però non è l’unico ad essersi mosso nel Corno d’Africa ed in particolare in Somalia. La Turchia, ad esempio, è attiva ormai dal 2011 in quel Paese e sta investendo molto nella sua ricostruzione: più di due milioni di dollari al mese nel solo 2016. A margine dei centinaia di milioni di dollari donati da Istanbul per gli aiuti umanitari, i soldi turchi hanno quindi permesso di costruire il nuovo porto ed aeroporto di Mogadiscio, inoltre nel 2016 Erdogan ha inaugurato la “più grande ambasciata turca del continente africano” annunciando parallelamente che presto sorgerà la prima base militare turca in Africa capace di ospitare sino a 1500 soldati.
La Somalia quindi, per la sua posizione strategica – al pari di Gibuti – nel controllo dei traffici commerciali che passano per lo stretto di Bab el-Mandeb, è tornata ad essere meta di conquista per quelle nazioni che hanno la volontà di ergersi a potenze regionali. La Turchia, infatti, ha ben compreso l’importanza del controllo e della sicurezza degli accessi a quello che si definisce “Mediterraneo allargato” e le spese sostenute per la ricostruzione della Somalia, così la futura intenzione di porvi un insediamento miliare stabile, lo dimostrano.
Roma da questo punto di vista, e soprattutto in confronto ad Istanbul, sembra essere rimasta un po’ al palo numeri alla mano, anche considerando l’impegno italiano nella formazione della futura classe dirigente somala grazie, ad esempio, a progetti condotti coinvolgendo la Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze. Progetti lodevoli e importanti ma che necessitano comunque di una presenza di tipo diverso sul territorio affinché tutto quanto investito sino ad oggi non vada perso: lo hanno capito gli Stati Uniti nonostante la batosta del 1994, lo ha capito la Turchia, lo hanno capito anche altri attori internazionali come la Cina che è sbarcata ufficialmente non molto lontano dalla Somalia. Adesso tocca a noi.