Nell’America divisa da faglie razziali e sociali, ulteriormente fiaccata dalle elezioni più complesse della storia degli Stati Uniti, la prossima battaglia annunciata non sarà tanto quella fra democratici e repubblicani, ma interna allo stesso mondo della sinistra americana. Gli accadimenti di questi ultimi mesi hanno, infatti, acuito lo scontro intra-americano, quello fra classi sociali, fra nord e sud, fra città e periferia: i temi del welfare, della sanità, del sostegno al reddito hanno acceso i toni sia della far right che della far left, ed è proprio quest’ultima che promette di mettere alle strette Joe Biden nei prossimi quattro anni.
L’offensiva della Ocasio-Cortez e dei progressisti
La divisione interna ai dem, fra le molteplici sfumature di blu possibili, appare infatti più grave, in termini di governabilità, di quella con i rivali repubblicani e promette di minare la strada di un centrista come Biden. Del resto, non è un mistero che quest’ultimo abbia investito molto, in campagna elettorale, sul voto degli indipendenti, quelli che Pete Buttigieg ha spesso definito maliziosamente “futuri ex repubblicani”. Questo equivale a non aver conquistato a pieno la sinistra del partito che, pur avendo acconsentito alla nomina e alla piattaforma, si è turata il naso di fronte ad un candidato eccessivamente neutro.
Alexandria Ocasio-Cortez è uno dei simboli di questa spinta progressista, una dem che chiede un partito più esclusivo, meno centrista, meno calderone e più left oriented che in passato. Pur avendo agito in campagna elettorale come sostenitrice di Biden, come cortesia di partito esige, e dopo aver appoggiato il socialista democratico Bernie Sanders nelle primarie, a poche ore dall’elezione di Biden è tornata sulle barricate, criticando il Comitato per la campagna del Congresso democratico e sostenendo che l’approccio dei suoi gruppi alleati, Justice Democrats e Brand New Congress, fosse nettamente migliore. A seguire, ha respinto le critiche di alcuni membri democratici che hanno accusato la sinistra del partito di costar loro seggi importanti, bollandoli come “anatre sedute”.
Il J’accuse dell’energica Ocasio-Cortez e del suo entourage si allarga alla competenza della macchina di partito: parla di negligenza, di mancanze, di un partito che non sa nemmeno stare online e che non ha giocato su tutti i campi di battaglia dovuti. L’idea di base che i far left dem appoggiano è, dunque, quella di un partito piccolo, a maglie strette, ed hanno dalla loro il dominio dei social, cosa che non si può dire del centrista Biden, piuttosto offline fino ad oggi: questo ha determinato una frattura tra una elitaria bolla online progressista e la grande “tenda accogliente” moderata e “pigliatutto” che Biden rappresenta.
Il nodo delle nomine
Il tema delle nomine presidenziali sarà a lungo oggetto di discussione e, nel clima di incertezza in cui versano perfino i risultati elettorali, agiteranno le acque democratiche fino a gennaio. La Camelot di Biden dovrà rispondere a numerose aspettative bipartisan: essere composta da esperti, proattiva sul tema della pandemia, e dovrà dare messaggi precisi in merito agli annosi temi dell’uguaglianza razziale e di genere. Un gabinetto che poi dovrà essere suffragato dal Senato. Biden, presumibilmente, sarà centrista anche in queste scelte per non incorrere in rifiuti o nomine contestate, barattando personaggi eccessivamente schierati e left oriented con numerosi tecnici, donne, soprattutto afroamericane.
Da subito, il nome di Bernie Sanders è circolato da più parti, quasi un tributo al compagno di partito che poi scelse di ritirarsi dalla corsa per la Casa Bianca. Ed è proprio su Sanders che si addensano in queste ore i nuvoloni della frattura democratica. “Se avessi un portafoglio che mi permettesse di lottare per i diritti delle famiglie che lavorano lo accetterei? Sì, lo farei”, ha dichiarato qualche giorno fa alla Cnn il senatore del Vermont, “sospettato” di essere in odore di nomina al Lavoro, per la quale si è dichiarato disponibile ad accattare la sfida. Tuttavia, serve un bagno di realismo: un socialista come Sanders al Lavoro significherebbe uno spostamento a sinistra del baricentro, non solo democratico, ma istituzionale americano. Ergo, davvero improbabile una nomina “al merito”.
Più realistica l’ipotesi, invece, avallata dall’Independent, che nel Partito democratico sta facendosi strada l’idea di escludere i principali rappresentanti proprio della sinistra progressista, Sanders ma anche Elizabeth Warren, da qualunque incarico di governo, nel timore di scatenare le ire dei Repubblicani nell’America spaccata a metà, ma soprattutto di perdere ancora nelle lezioni di medio termine. Ecco dunque profilarsi l’ipotesi, ad esempio, della nomina di Susan E. Rice al Dipartimento di Stato: la Rice ha lavorato a stretto contatto con Biden durante il suo periodo come Consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Obama dal 2013 al 2017. Prima del suo lavoro alla Casa Bianca, ha servito come Ambasciatrice delle Nazioni Unite dal 2009 al 2013 e ha lavorato al Dipartimento di Stato durante l’amministrazione Clinton: un tecnico, donna, ma soprattutto un’obamiana. E la stessa scelta si profila anche alla Difesa con Michèle Flournoy, ex Vvicesegretario aggiunto alla Difesa durante l’amministrazione Clinton e Sottosegretario alla Difesa per la politica sotto Obama. Se nominata e confermata, sarebbe la prima donna a guidare questo dicastero. Per gli altri ruoli chiave si rincorrono i rumors, ma in lizza sembrano esserci tantissime donne, soprattutto afroamericane che possano, anche solo simbolicamente, mettere a tacere le rimostranze progressiste.
Quello che la far left non perdonerà
Dal momento in cui Donald Trump ha prestato giuramento come presidente, i democratici si sono allineati per pianificarne la sconfitta. Il loro successo, però, ora segna anche la fine di una tregua elettorale che fa emergere anche profonde differenze ideologiche e generazionali, soprattutto al Congresso che è tutto tranne che iperconquistato. Ma la domanda più grande è se il moderatismo centrista dei due grandi partiti americani, lontani dalle polarizzazioni politiche europee, ha effettivamente giovato alla campagna democratica che su Biden ha puntato ma che non ha stra-vinto, nonostante abbia raccolto numerosi indipendenti e indecisi.
È questo elemento che la far left non perdonerà ai dinosauri di partito e a Biden in particolare. L’idea di essere stati messi da parte perché potenzialmente pericolosi per quei risultati che comunque non sono arrivati. Ora, dunque, la sinistra del partito chiederà il conto ai limiti dell’ingovernabilità: i progressisti sono incoraggiati ad a denunciare sconfitte legate a quel centrismo vecchio stile che non è riuscito a catturare l’immaginazione degli elettori e ha criticato candidati moderati per non aver sviluppato marchi e strategie digitali abbastanza forti. Non a caso la far left, aveva risparmiato Obama e i moderati al Congresso proprio per via della sua trasversalità in fatto di temi, proposte, piattaforme ed elettorato.
I temi su cui i radicali incalzeranno Biden saranno certamente quelli delle politiche popolari come Medicare for All, il Green New Deal, la riforma della giustizia penale, ma soprattutto la qualità della vita della working class americana: quella dei sobborghi intorno alle aree metropolitane in rapida crescita come Phoenix e Atlanta che hanno contribuito a portarlo a Pennsylvania Avenue.